Introduzione e report a cura di Roberto Guerra e Gabriele Mucignat
Dopo una prima giornata che ha visto nei leggendari Judas Priest e nei blasfemi Behemoth i due picchi più elevati e degni di menzione, passiamo ora a parlare della seconda carrellata di esibizioni cui abbiamo avuto modo di assistere dopo una tranquilla notte passata in tenda a dormire e a meditare su tutto ciò che ci si aspetta da un festival che ogni anno riesce ancora, nonostante tutti i difetti imputabili e la concorrenza ormai spietata dell’Hellfest, a farci sognare. Anche in questa seconda tornata il caldo non darà tregua fino al tramontar del Sole, anzi, potremmo forse descriverla come il giorno più rovente dell’intero festival, rendendo di fatto piuttosto faticosi gli spostamenti e la permanenza in svariate zone della location, anche a causa della polvere e dei conseguenti fastidi alla respirazione. Tuttavia, come diciamo sempre, per la musica si sopporta questo ed altro e, considerando il bill che ci si para davanti, non c’è assolutamente alcuna difficoltà che tenga. A tal proposito, premettiamo inoltre che quello che state per affrontare è probabilmente il più lungo e corposo tra i tre report previsti per l’edizione 2018 del Wacken Open Air. Buona lettura!
DEZPERADOZ
Data l’impossibilità di dormire più di tanto, a causa del sole rovente che picchia sulla tenda già di prima mattina, si può cogliere l’occasione per ascoltare in sede live le prime band proposte all’interno del bill della seconda giornata di Wacken. Si parte con i Dezperadoz, progetto tedesco di stampo southern rock/heavy metal, fortemente caratterizzato dall’immaginario western del XIX secolo, e nato originariamente da un’idea di Alex Kraft e del leader dei Sodom Tom Angelripper. I cowboys germanici ci catapultano dal W:E:T Stage al Far West grazie alle loro melodie, parzialmente in grado di richiamare le colonne sonore dei film a tema degli anni ’60 e ’70, composte da illustri maestri del calibro di Ennio Morricone; tutto ciò è reso possibile tramite brani affermati come “Do It Like The Cowboyz Do” ed altri di produzione più recente come “Back In The Saddle” e “My Ol’ Rebel Heart”. A conti fatti si tratta di una performance gradevole, seppur non eccezionale, in particolar modo per quanto riguarda la voce del sopracitato frontman Alex Kraft. Tuttavia, ci sentiamo di fare un plauso per l’esecuzione della cover di “(Ghost) Riders In The Sky”, apprezzata e cantata da buona parte dei presenti, trattandosi di un vero e proprio evergreen per buona parte degli ascoltatori del genere.
(Gabriele Mucignat)
KELLERMENSCH
Una proposta inusuale trova spazio sul vicino Headbanger Stage, ad opera dei danesi Kellermensch, la cui traduzione significa letteralmente ‘Memorie del Sottosuolo’, a citazione dell’opera firmata dal grande autore russo Fedor Dostoevskij. La loro offerta musicale, infatti, si rivela cupa e a tratti ossessionante, mescolando degli elementi tipicamente rock, con altri di matrice alternative metal e persino post punk, con in più un tocco caratteristico fornito dall’utilizzo di strumenti classici quali organo, violino e contrabbasso. Tutto ciò è distinguibile già dalle iniziali “How To Get By” e “Black Dress”, insieme alla personalissima cover di “Don’t Let It Bring You Down”, originariamente composta da Neil Young; tuttavia, quello che più colpisce è l’atteggiamento eccentrico del frontman, il quale si presenta sul palco con movenze stravaganti e già madido di sudore, con la peculiare tendenza a gettare più volte il microfono durante l’esibizione, nonché a calciare vari oggetti di scena fino a far culminare la sua folle e ricercata interpretazione nella distruzione di una chitarra al momento dell’ultimo brano “Moribund Town”. Un ascolto sicuramente complesso che, a fronte anche di un’equalizzazione dei suoni relativamente scadente, difficilmente si presta all’acustica determinata dal tendone che copre il palco (gli archi si sentono a malapena); nonostante ciò, si è trattato comunque di una buona occasione per esplorare nuovi lidi musicali.
(Gabriele Mucignat)
CANNIBAL CORPSE
Indubbiamente uno degli appuntamenti più attesi dedicati al metal estremo, quello che vede protagonista l’iconica brutal death metal band americana guidata dal corpulento vocalist George ‘Corpsegrinder’ Fisher e dal virtuoso bassista Alex Webster. Trattandosi ancora del tour dedicato all’ultimo album “Red Before Black”, buona parte della setlist è incentrata proprio su questo, a partire dall’intero trittico iniziale composto da “Code Of The Slasher”, “Only One Will Die” e dalla macabra title-track, fino a “Scavenger Consuming Death” eseguita più tardi nel corso dello show. Per quanto riguarda il resto della scaletta, si possono riconoscere numerosi estratti da tutti i periodi più apprezzati della carriera dei Cannibal Corpse, con presenze tutto sommato recenti quali “Evisceration Plague” e “Scourge Of Iron”, senza tuttavia dimenticare sanguinolenti cavalli di battaglia del calibro di “Skull Full Of Maggots”, “I Cum Blood”, “Make Them Suffer” e l’immancabile finale dedicato ad “Hammer Smashed Face”, indubbiamente uno degli inni più riconoscibili di tutto il genere death metal. L’impatto della band è notevole anche sotto il sole di mezzogiorno, sia per quanto riguarda il sound violento e corposo, sia ovviamente per l’indiscutibile capacità di George e soci di intrattenere gli estimatori presenti, che non lesinano a dedicarsi a un po’ di sano moshpit mattutino, accompagnati anche dai granitici riff e assoli partoriti dalle mani dell’accoppiata chitarristica, composta dai sempre possenti Pat O’Brien e Rob Barrett. Forse non si è trattato del miglior show dei Cannibal Corpse cui abbiamo assistito ultimamente, ma si tratta comunque di uno squisito cocktail a base di sangue, violenza e tecnica, in grado di trasmettere una carica più che adeguata in vista del proseguimento della giornata.
(Roberto Guerra)
PERSEFONE
Un altro potenzialmente irrinunciabile appuntamento sotto il tendone è quello rappresentato dall’esibizione degli andorrani Persefone e dalla loro moderna proposta musicale, in grado di fondere meticolosamente l’impeto del melodic death metal ad elementi progressive più ricercati ed orecchiabili, forgiando piccoli gioielli come la iniziale “The Great Reality” e la successiva “Stillness Is Timeless”. Purtroppo, specialmente per quanto riguarda i primi pezzi presenti in scaletta, i suoni si rivelano al limite del mediocre, al punto da non rendere semplice udire la voce del frontman Marc Martins Pià per un breve lasso di tempo, compromettendo in questo modo la limpidezza dell’intera esecuzione musicale, solitamente adamantina. Fortunatamente, verso metà esibizione molti problemi vengono risolti, permettendo così di godere grazie a gemme del calibro di “Living Waves”, “No Faced Mindless” e “Mind As Universe”, in grado finalmente di rendere giustizia ad una delle migliori band in circolazione all’interno del loro determinato filone; non mancano nemmeno alcuni momenti di simpatia, come l’avviluppo del bassista Toni Mestre in una bandiera dello stato di Andorra, in occasione del suo compleanno. A fronte di un leggero ritardo al momento dell’entrata, veniamo a sapere della decisione di tagliare fuori dalla setlist, a malincuore, la maestosa “Spiritual Migration”, saltando così direttamente alla chiusura con il singolo “Prison Skin”, dopo il quale rimane solo il tempo per qualche fulmineo saluto, prima del calo del sipario.
(Gabriele Mucignat)
ATTIC
Cambiamo totalmente genere, rimanendo al chiuso di fronte all’Headbangers Stage, per fare un’interessante immersione all’interno della cosiddetta ‘new wave of traditional heavy metal’, e per l’esattezza in quella più lugubre, oscura e spettrale, insieme ai giovani e promettenti Attic. Per chi non li conoscesse, si tratta di una band attiva da relativamente pochi anni, durante i quali è comunque riuscita a far parlare di sé grazie all’immissione sul mercato di due album di indiscutibile qualità, in grado di far drizzare non poco le antenne a tutti i cultori delle sonorità old school, in particolar modo il recente e premiato “Sanctimonious”. Sebbene ci sia stato chi li ha etichettati come una semplice copia ringiovanita dei Mercyful Fate, noi personalmente riteniamo che, nonostante la provenienza musicale e la base si fondino esattamente in quel dipartimento, gli Attic siano molto più di questo: già alla vista della blasfema scenografia, nonché con la iniziale title-track del sopracitato album, si fanno evidenti le influenze più moderne e quasi tendenti al black metal che permeano il sound della band teutonica, che sembra volersi confermare a tutti i costi come una delle migliori giovani realtà appartenenti al filone più classico della nostra musica preferita. La doppia voce del carismatico Meister Caliostro riesce ad avvicinarsi a quella di sua maestà King Diamond come nessun’altra è stata in grado di fare nel corso dei decenni, mentre gli axemen partoriscono riff e fraseggi tanto macabri quanto esaltanti, sempre accompagnati da una sezione ritmica impeccabile e varia. Oltre a estratti del secondo apprezzatissimo album, tra cui le note “Dark Hosanna” e “The Hound Of Heaven”, della quale esiste anche un video ufficiale disponibile online, non mancano anche parentesi dedicate all’esordio quali “Join The Coven”, “The Headless Horseman” e “Sinless”, tutte perfettamente coerenti al loro stile, ma comunque in grado di lasciar intuire il processo di maturazione che questi giovani defender stanno affrontando, cosa che ci lascia ben sperare per un futuro terzo album in grado potenzialmente di consacrarne il talento. Sebbene ci sia sempre un po’ di posto per lo scetticismo, la breve esibizione degli Attic ha soltanto confermato le nostre ottime impressioni, permettendoci di attendere con una discreta trepidazione di sentir nuovamente parlare di loro. Promossi e consigliati con più di un applauso.
(Roberto Guerra)
KORPIKLAANI
Nell’ora più calda della giornata, in prossimità dell’Harder Stage, l’aria si riempie di festaiolo metallo finlandese, impreziosito da violini e fisarmoniche, grazie all’arrivo di una delle band folk metal più popolari del panorama odierno. Parliamo naturalmente dei Korpiklaani, che in questa occasione si presentano fortunatamente sobri, nonché pronti ad offrire un concerto potenzialmente divertente già con le iniziali “Wooden Pints” e “Henkselipoika”; quest’ultima e “Kotikonnut” rappresentano gli estratti presenti in scaletta provenienti dal prossimo album “Kulkija”, in uscita questo settembre. Sebbene sull’aspetto puramente tecnico non ci siano particolari critiche da muovere, su quello puramente sonoro ce ne sono invece di molteplici, legate principalmente all’impastamento dei suoni e all’eccessivo rimbombo dei bassi, così come ad una chitarra quasi inesistente, con una conseguente resa fortemente penalizzata anche all’altezza del mixer. Tuttavia, ciò non impedisce alla folla di gradire visibilmente la schiera di grandi classici del ‘Clan della Foresta’, come “Rauta”, “Lempo” e “Metsämies”, fino a danzare nella polvere al momento delle ultime ed immancabili “Happy Little Boozer”, “Tequila”, “Beer Beer” e “Vodka”, che inebriano ancora di più l’atmosfera goliardica tanto cara all’apprezzata band finnica.
(Gabriele Mucignat)
MR. BIG
Esistono casi in cui è sufficiente leggere i nomi dei musicisti coinvolti per capire che si sta per assistere a un concerto a dir poco fenomenale e maiuscolo: è questo il caso dei Mr.Big, in procinto di calcare il palco del Louder Stage, e dei leggendari addetti alle sei e alle quattro corde, cui si deve la completezza e la genialità delle composizioni e, soprattutto, delle esecuzioni che da vent’anni stimolano la gioia di ogni amante della tecnica musicale. Senza nulla togliere all’eternamente giovane vocalist Eric Martin e al buon Matt Starr dietro alle pelli, è innegabile che siano i vulcanici Paul Gilbert e Billy Sheehan a rappresentare le effettive stelle dello spettacolo odierno, e questo si può percepire nuovamente sin da subito sulle note della mitica “Daddy, Brother, Lover, Little Boy”, arricchita come di consueto dal tipico doppio assolo eseguito con l’ausilio di due trapani elettrici, per la gioia di ogni fan di certe tamarrate (tra cui chi vi scrive). Sia che si tratti di esaltanti inni rock’n’roll quali “Alive and Kickin’”, “Price You Gotta Pay” e “Addictes To The Rush”, o di vere e proprie ballad come “To Be With You” o la cover di “Wild World” di Cat Stevens, le capacità dei quattro musicisti on stage riescono a rendere l’esecuzione del tutto esente da difetti, così come il concerto intero, che può in questo modo confermarsi, senza ombra di dubbio, come uno dei migliori della giornata di venerdì. Dopo la chiusura di questa sensazionale ora di grande rock’n’roll, affidata alla nota “Colorado Bulldog”, andiamo a rifocillarci in attesa di un proseguimento di serata che si prospetta ricco di sorprese e momenti energici.
(Roberto Guerra)
EPICA
Alle quattro del pomeriggio il sole picchia ancora forte sui campi di Wacken e sulle teste dei presenti, ma ciò sembra non ostacolare minimamente la possenza sonora e scenica di una delle migliori band olandesi in circolazione. Con lo sferzante riff iniziale di “Edge Of The Blade” si percepisce già la volontà degli Epica di non deludere le aspettative del numeroso pubblico presente, con suoni egregiamente bilanciati e un’esecuzione presumibilmente grintosa e degna di nota. Le successive “The Essence Of Silence” e “Victims Of Contingency” non possono che confermare le impressioni, anche a fronte di una risposta pienamente positiva da parte dei presenti, i quali partecipano animatamente esaltandosi e battendo le mani fino alle ultime file, favorendo inoltre il passaggio di decine di crowdsurfer in concomitanza di pressoché ogni brano. Tra roventi fiammate provenienti dal palco e un’ottima prestazione vocale ad opera di Simone Simons, si susseguono la coinvolgente “Storm The Sorrow”, “Unchain Utopia” e la consueta accoppiata di “Cry For The Moon” e “Sancta Terra”, che termina con un bagno di folla per l’instancabile Coen Jensen, che porta a termine il brano con la tastiera ancora collegata all’impianto audio, dopo aver corso da una parte all’altra del palco per tutta la durata del brano. Durante l’introduzione di “Beyond The Matrix” Simone incita tutto il pubblico a mettersi a saltare e, pochi attimi dopo, il mare di folla ubbidisce trasformando il terreno in una nube di polvere, che non fa in tempo a diradarsi per il successivo e poderoso moshpit sull’attacco della conclusiva “Consign To Oblivion”, che mette il sigillo ad una delle migliori esibizioni di questo venerdì incandescente. Gli Epica continuano a dimostrarsi un gruppo robusto ed affidabile, in grado di portare a termine nel migliore dei modi uno show anche in pieno pomeriggio, e che, a parere di chi scrive, potrebbe meritare una posizione più prestigiosa all’interno del running order del festival.
(Gabriele Mucignat)
CHILDREN OF BODOM
Prendete la scadente esibizione dei Children Of Bodom durante l’edizione del 2014 di questo stesso festival, cancellatela e sostituitela con quel miscuglio di potenza, tecnica e concentrazione alla base di quella che si prospetta come un’altra performance da annoverare tra le migliori dell’evento corrente. Tutto ciò incarna perfettamente la definizione di ‘riscatto’, con tanto di scuse ufficiali da parte del frontman Alexi Laiho, durante una pausa, per quella maledetta e mediocre esperienza di quattro anni fa. Possiamo infatti tranquillamente affermare che oggi, per il gruppo finlandese, sembra girare tutto per il verso giusto: sin dalle iniziali “Are You Dead Yet?” e “In Your Face” si respira un clima saturo di ottimo melodic death metal targato anni 2000, che diffonde il furore tra la folla scatenata, perennemente impegnata a scuotere la testa ed a sollevare gli svariati temerari intenti a sfidare l’impetuoso mare di metallari presenti. È da notare come la scaletta scelta sia totalmente incentrata su alcuni tra i brani più iconici del quintetto, ad eccezione dell’unico estratto recente “I Worship Chaos”; non a caso la moltitudine dei presenti acclama uno ad uno inni del calibro di “Blooddrunk”, “Angels Don’t Kill”, “Needled 24/7” e “Hate Me”. Alexi appare decisamente statico sul palco rispetto al passato, ma in compenso riesce, insieme ai suoi compagni di band, a garantire una brillante performance musicale, accompagnata inoltre da un audio perfetto, in grado di accendere ulteriormente gli animi dei presenti grazie a sensazionali versioni di “Everytime I Die”, “Downfall” e “Hatecrew Deathroll”, durante le quali il moshpit e l’adrenalina non possono che farla da padrone. Unica nota negativa del concerto: la mancanza di “Towards Dead End”, che avrebbe impreziosito ulteriormente un’esibizione a dir poco memorabile.
(Gabriele Mucignat)
DORO
Quando c’è in programma un concerto della Metal Queen per antonomasia in quel di Wacken non è possibile non prepararsi per un’esibizione davvero carica di potenziale e di speciali inattesi, con una discreta importanza dedicata agli ospiti e all’esaltazione di tutto ciò che oggi si può considerare parte del mondo del metal. Dopo il tipico e grintoso trittico iniziale a base di “I Rule The Ruins”, “Burning The Witches” e “Raise Your Fist In The Air”, cominciano le sorprese con la comparsa on stage di Andy Scott e Peter Lincoln, iconici ex membri dei The Sweet, per l’esecuzione di una cover di “The Ballroom Blitz”, cantata da buona parte dei presenti. Successivamente, la band viene raggiunta sul palco dal buon Tommy Bolan, storico ex chitarrista dei Warlock, che si dimostra indubbiamente azzeccato per la riproposizione di classici come “East Meets West”, “Fur Immer” e “Earthshaker Rock”, prima del sopraggiungere del mastodontico Johan Hegg, frontman degli Amon Amarth, insieme al quale la bionda vocalist vuole dare un assaggio del nuovo album in anteprima, con la promettente “If I Can’t Have You – No One Will”, per poi omaggiare proprio la sopracitata band svedese suonando una versione leggermente meno estrema di “A Dream That Cannot Be”, nella quale Doro era presente anche su disco al momento dell’uscita. Dopo la potentissima “Hellbound”, la Metal Queen ci propone nuovamente un estratto del nuovo album, ovvero “All For Metal”, cui segue l’inevitabile riproposizione del brano “We Are The Metalheads” che, ricordiamo, fu l’inno del festival ai tempi della ventesima edizione, suonata insieme a un discreto numero di ospiti tra cui anche i Doom Birds (Der Metal Chor) e persino Angela Gossow, che per un istante ci ripropone il suo growl al femminile, ormai sostituito da quello di una certa cantante dai capelli blu che vedremo domani. Discorso simile anche per l’immancabile “All We Are”, durante la quale ogni ospite dello show si ripresenta on stage, eccetto il totalmente inaspettato Jeff Waters degli Annihilator, cui invece viene riservato l’onore di chiudere il concerto con una cover di “Breaking The Law”: una scelta in parte bizzarra, anche considerando le capacità del frontman canadese, ma comunque divertente e che sancisce la fine di uno show più che piacevole e con alcuni connotazioni nostalgiche che non hanno guastato.
(Roberto Guerra)
NIGHTWISH
La band symphonic metal per antonomasia ricopre un’importante posizione in veste di primo headliner della serata sul Faster Stage, attesa con palpabile fermento dall’immancabile folla oceanica di estimatori di Tuomas Holopainen e soci, invocati a gran voce già durante il countdown iniziale antecedente all’apertura del sipario con “End Of All Hope”. I musicisti finlandesi si presentano relativamente carichi e intenzionati a proseguire con altri apprezzati brani provenienti dal primo storico periodo della band, tra i quali spiccano “Wish I Had An Angel”, “Come Cover Me” e “Gethsemane”; anche se, bisogna dirlo, si avverte una leggera mancanza di pathos rispetto a quello che ci si aspetterebbe da una band di questo calibro. Il problema non è assolutamente da ricercare nel comparto tecnico: a parte la voce di Marco Hietala, ormai sempre più rauca, a livello strumentale tutto sembra filare liscio e Floor Jansen non delude assolutamente con la sua prestazione vocale; tuttavia è come se mancasse una sorta di autentico sentimento di partecipazione e coinvolgimento: un vero peccato, considerando il live spaventosamente emozionante che gli stessi Nightwish ci regalarorono, ormai cinque anni fa, nella stessa sede. A deteriorare ulteriormente l’atmosfera, i continui ed insopportabili effetti pirotecnici, sparati in maniera del tutto casuale e priva di logica, che accompagnano lo show, che avanza con le successive “Èlan”, “Amaranthe” e “I Want My Tears Back” tra l’apprezzamento generale della grande schiera di appassionati presenti. Finalmente arriva anche il turno dell’immancabile “Nemo”, nonché di un’altra coppia di brani storici come “Devil & The Deep Dark Ocean” e “Slaying The Dreamer”, prima che lo show si avvii verso la conclusione sulle note di una parte della più recente suite “The Greatest Show On Earth”, seguita dall’avvincente “Ghost Love Score”, che ci concede di respirare almeno in parte quella passione che avremmo voluto percepire per tutta la durata dello spettacolo.
(Gabriele Mucignat)
RUNNING WILD
Poche esibizioni di questa ventinovesima edizione di Wacken erano attese dal pubblico amante dell’old school come l’unico show europeo dei Running Wild previsto per il 2018. La posta in gioco è molto alta, dal momento che si è fatto un gran parlare di questa sorta di ritorno alle origini ad opera di Rolf e compagni, grazie anche ad un ultimo album ispirato e di qualità, oltre che a delle esibizioni recenti con una scaletta fortemente incentrata sui classici intramontabili; inoltre, quest’anno il capolavoro “Port Royal” spegne ben trenta candeline, e alla luce di ciò appare più che giustificabile la curiosità che permea i fan del Capitano Pirata più metal di sempre, negli attimi precedenti il primo scoppio di cannoni. Quest’ultimo giunge con “Fistful Of Dynamite”, seguita a ruota da “Bad To The Bone” e dalla title-track dell’ultimo lavoro “Rapid Foray”, rappresentando un inizio di concerto indubbiamente coi fiocchi, nonostante dei suoni ancora non abbastanza potenti e ben settati per godere al meglio di pezzi di cotanto spessore. La situazione migliora col procedere della scaletta, che prosegue liscia tra inni immortali quali “Riding The Storm” e “Blazon Stone”, senza però dimenticare vere e proprie chicche come “Metalhead”, “Lonewolf” e, soprattutto, la nuova e promettente “Stargazer”, che Rolf ha ben pensato di proporci in anteprima assoluta. Immancabili anche i riferimenti al sopracitato album ora trentenne, dal quale vengono eseguiti tre estratti irresistibili tra cui la title-track, “Uaschitschun” e “Raging Fire”; inspiegabile invece, ancora una volta, l’idea di inserire un assolo di batteria, piuttosto lungo e inutile, che per forza di cose toglie spazio ad altre potenziali canzoni molto attese dal pubblico presente. L’encore, preceduto dalla mitica ed emblematica “Under Jolly Roger”, si compone misteriosamente di sole due tracce, ovvero la splendida “Soulless” e la recente “Stick To Your Guns”, dopo la quale Rolf si assenta per poi presentarsi nuovamente, senza chitarra, per fare i complimenti al pubblico prima di congedarsi definitivamente, lasciando relativamente straniti e in fermento tutti gli estimatori in attesa del vero estratto irrinunciabile, attualmente mancante: “Conquistadores”, non pervenuta nemmeno sul finale. Non ci è possibile determinare il motivo della sua assenza, anche se, osservando i movimenti on stage e nelle retrovie, ci viene da pensare che fosse originariamente prevista ma che per questioni di tempo sia stato poi necessario tagliarla in extremis, per la delusione di tutti. Chiudendo più di un occhio su questa mancanza, così come sull’inutile drum solo e su dei suoni non sempre perfetti, come possiamo definire lo show dei Running Wild? Senza dubbio un bel concerto, con moltissimi spunti positivi e in grado di emozionarci e fomentarci in più di un’occasione, ma che purtroppo non raggiunge l’eccellenza per colpa di alcune scelte sbagliate e di alcuni aspetti che avrebbero necessitato di maggiore cura, soprattutto in un’occasione come questa. In ogni caso, il Capitano si è visibilmente impegnato e lo show lo ha portato a casa con voti più che positivi, ora attendiamo notizie per qualcosa di potenzialmente speciale per l’anno nuovo che, ricordiamo, sancirà anche il quarantesimo anniversario della fondazione dei Running Wild.
(Roberto Guerra)
IN FLAMES
Sebbene si tratti ancora di una delle formazioni più amate del panorama melodic death metal mondiale, è innegabile che la reputazione di Anders Fridén e soci ultimamente abbia subito più di qualche sferzata negativa, soprattutto a causa della qualità parecchio opinabile degli ultimi album, considerati da molti relativamente mediocri e non all’altezza dell’ispirazione e della potenza dei lavori passati. Allo stesso modo, anche le opinioni sui loro concerti si sono fatte contrastanti col procedere degli anni, soprattutto a causa delle setlist tendenzialmente orientate sulle produzioni recenti, a discapito dei classici tanto amati da molti ascoltatori, spesso rivolti a preferire le sonorità melodic death più violente degli inizi, pur non trascurando completamente lo stile adottato in seguito. Anche in questa occasione, la scaletta si compone prevalentemente di brani non più vecchi di una quindicina d’anni, fatta eccezione per le belle “Pinball Map” e “Only For The Weak”, risalenti a quel riuscitissimo album che era “Clayman”: si va dalle sempre presenti “My Sweet Shadow”, “The Mirror’s Truth” e “Alias” fino alle varie “Cloud Connected”, “The Chosen Pessimist”, “Take This Life”; bizzarra anche la scelta di chiudere lo show con “The End”, che per quanto risulti azzeccata come titolo, perde decisamente per quanto riguarda la grinta che una traccia di chiusura dovrebbe trasmettere. Dal punto di vista esecutivo non c’è dubbio che il concerto degli In Flames sia da promuovere, soprattutto per quanto riguarda la carica e l’energia percepibili in alcuni momenti, anche se si continua a notare una deriva a tratti eccessiva verso lo stile metalcore, anche per quanto riguarda la presenza on stage; oltre al songwriting, il che può fare la gioia di alcuni tanto quanto la rabbia di altri. Valutate pure voi alla prima occasione.
(Roberto Guerra)
GHOST
Avete presente quando per anni vi impuntate a giudicare negativamente una band, anche di successo, per poi ritrovarvi misteriosamente, ad un certo punto, a cambiare idea rivalutando di conseguenza l’intero repertorio del gruppo in questione? Ecco, questo è quello che è accaduto alcuni mesi fa a chi vi scrive, che si è riscoperto improvvisamente un potenziale estimatore dei Ghost e della particolare proposta musicale nata dalla mente del buon Tobias Jens Forge; tutto ciò nonostante le critiche, anche abbastanza feroci, esposte negli anni precedenti in alcune determinate occasioni. Sono quasi le due di notte, l’atmosfera si sta elettrizzando e la luna splende beata nel cielo, coperta in parte da poche nuvole in grado di renderne ulteriormente spettrale la figura; con quest’atmosfera suggestiva esordisce sul palco dell’Harder Stage, sulle note di “Ashes” e “Rats”, la corposa formazione guidata dal sopracitato frontman, ora non più vincolata alla figura del Papa e degli abiti clericali, ma rinnovata in una veste estetica più orientata ai musicisti anni ’50, con tanto di abiti eleganti e farfallino a condire il tutto, pur senza rinunciare alle caratteristiche maschere. Questo cambiamento ha evidentemente permesso a Forge e soci di poter dare sfoggio di una capacità di intrattenimento visivo davvero di gran classe, rimasta evidentemente latente negli anni precedenti; tutto ciò non può che giovare enormemente allo spettacolo, composto da numerosi brani provenienti dal recente “Prequelle” e dai lavori precedenti, tra cui spiccano senza dubbio le ovvie “Absolution”, “From The Pinnacle To The Pit” e “Year Zero”, anche se il piatto forte sembrano proprio essere gli estratti dal folle album uscito poco tempo fa, in particolar modo la strumentale “Miasma”, durante la quale rivediamo per la prima e unica volta il buon Papa, impegnato per l’occasione a suonare il sassofono, prima di scomparire nuovamente. Ci sono ben otto musicisti presenti sul palco, tra chitarre, tastiere e sezione ritmica, tutti perfettamente sincronizzati e in grado di valorizzare uno show che vede nel frontman quasi una sorta di direttore d’orchestra, in grado di gestire i fili di uno spettacolo impeccabile e del tutto sprovvisto di sbavature, che tocca il suo apice nei momenti più vicini al finale, riuscendo a farci letteralmente danzare sulle note di “Dance Macabre” e “Square Hammer”, prima di augurarci finalmente la buonanotte con “Monstrance Clock”. A prescindere dalle opinioni, i Ghost hanno avuto ben pochi rivali quest’oggi e la cornice che ha caratterizzato lo show ha forse rappresentato una sorta di ulteriore ciliegina sulla torta, tanto da permettere a quest’ultimo concerto di stregarci come non ci saremmo potuti in alcun modo aspettare, il che non può che confermarci che, a volte, rivalutare una band può essere davvero una mossa azzeccata.
(Roberto Guerra)