04/08/2018 - WACKEN OPEN AIR 2018 – 3° giorno @ Wacken - Wacken (Germania)

Pubblicato il 01/09/2018 da

Introduzione e report a cura di Roberto Guerra e Gabriele Mucignat

Con poche ore di sonno alle spalle, per via dell’ora tarda cui ci è stato possibile andare a dormire, dopo la splendida esibizione dei Ghost, siamo pronti ad affrontare l’ultima giornata dell’edizione attuale del festival rock/metal più iconico al mondo, il quale fino a ora è riuscito a farci provare, come di consueto, sentimenti contrastanti, ma con una inevitabile prevalenza a base di coinvolgimento, nostalgia ed eccitazione, soprattutto grazie a delle performance maiuscole in una cornice che, per quanto ormai sia più riconducibile quasi a una sorta di trend, non ha perso una virgola del suo fascino. Possiamo sicuramente capire, almeno in parte, chi ha da tempo deciso di rivolgere le proprie attenzioni altrove, ma è altrettanto vero che Wacken è Wacken ed è sempre una grande emozione prendere parte a quello che, nel bene e nel male, rimane un evento a tratti irrinunciabile per una foltissima schiera di metallari provenienti da tutto il mondo. Quest’oggi saranno le Zucche di Amburgo l’evento principale della giornata, accompagnate da numerose altre realtà dedite ai generi più disparati, grazie alle quali si prospetta nuovamente una giornata di fuoco, nonostante una temperatura fortunatamente più permissiva rispetto all’incandescente venerdì. Detto questo, non possiamo far altro che augurarvi buona lettura, insieme a un degno proseguimento per quanto riguarda gli ultimi giorni di queste vacanze estive.

 


RIOT V

Un inizio di giornata a base di purissimo acciaio americano di matrice old school, in compagnia di una band che, nonostante i cambi di formazione, gode da sempre della fama di essere tra le migliori realtà esistenti per quanto riguarda dischi ed esibizioni, con ben pochi difetti imputabili, caratterizzati da un’energia e una carica che pochi altri colleghi possono vantare ultimamente. Impossibile non mettere d’accordo pressoché chiunque, su quanto appena detto, nel momento in cui si dà il via a un concerto con un inno immortale come “Thundersteel”, seguita a ruota da una buona metà intera del capolavoro omonimo, il quale quest’anno spegne ben trenta candeline, esattamente come un’altra pietra miliare di cui abbiamo parlato la sera precedente; dalla epica “Fight Or Fall”, passando per “Sign Of The Crimson Storm”, “Flight Of The Warrior” e “Johhny’s Back”, fino alla toccante “Bloodstreets”, il cuore di ogni defender presente non può che riempirsi di esaltazione con i Riot V e, nel contempo, di tristezza, al pensiero di quel musicista leggendario che era Mark Reale, venuto a mancare ormai più di sei anni fa. Lo show prosegue con le recenti “Take Me Back”, “Victory” e “Angel’s Thunder, Devil’s Reign”, inframezzate dalla ventennale parentesi di “Angel Eyes”, interpretate alla perfezione dall’eternamente giovane e prestante Todd Michael Hall e valorizzate da dei suoni in grado di rendere giustizia alle capacità di cinque musicisti tra i più degni di nota del panorama heavy metal. Mentre il sole inizia a emergere da dietro il palco, giunge una conclusione nostalgica, affidata alla tripletta “Swords And Tequila”, “Road Racin’” e “Warrior”, accompagnate dalle lacrime di emozione di tutti gli affezionati schierati sotto il Louder Stage, tra i quali non può che farsi insistente la speranza che, grazie alle nuove generazioni, i gloriosi fasti delle sonorità old school possano trovare dei degni eredi in grado, almeno parzialmente, di replicare quanto fatto da certi mostri sacri, compresi i qui presenti Riot V che, ancora una volta, al termine della giornata saranno in corsa per il titolo di miglior esibizione del bill odierno.
(Roberto Guerra)

WINTERSUN

Ora passiamo da un tipo di scintillante magia metallica ad un altro: i finlandesi Wintersun incarnano da sempre il concetto di band tanto controversa quanto geniale, grazie a dei lavori in studio piuttosto particolari e differenziati nella loro presentazione, ma in grado di toccare delle corde emozionali, nel cuore di molti ascoltatori, che poche altre proposte appartenenti allo stesso filone sono state capaci anche solo di sfiorare. Un inizio ‘primaverile’ con la lunga ed evocativa “Awaken From The Dark Slumber (Spring)”, opener del recente album “The Forest Seasons”, e subito si comincia a mandare nuovamente a fuoco le ugole ancora provate dallo show dei Riot V, grazie a un Jari Maenpaa visibilmente carico ed energico e a una band in piena forma, vogliosa di dare sfoggio di tutte le proprie capacità tecniche di chiara fama. Un balzo indietro di tredici anni con la folle “Battle Against Time”, prima di dare sfoggio di tutto il proprio fomento sulla splendida e poetica “Sons Of Winter And Stars”, le cui strofe, in particolar modo il bridge, cantato a gran voce da tutti i presenti, vanno a formare un brano che sarebbe da incorniciare come uno dei più ispirati ed emozionanti incisi negli ultimi anni. Trattandosi di un periodo estivo, non poteva mancare a questo giro la calorosa “The Forest That Weeps (Summer)”, la quale precede la conclusiva “Time”, che chiude un concerto composto da sole cinque canzoni ma che non ci ha annoiato nemmeno per un minuto, facendosi anzi desiderare di poter ascoltare presto del nuovo materiale partorito dalla mente di Jari e compagni, i quali hanno fornito una prova maiuscola nonostante la calda ora sotto un Sole decisamente più d’estate che d’inverno.
(Roberto Guerra)

ALESTORM

Pronti per salpare verso i sette mari alla volta di nuove avventure, spiegando le vele a favore di un autentico pirate metal scozzese? Gli Alestorm non si fanno attendere sulla banchina e, in tutta la loro maestosa sobrietà, entrano in scena con la consueta papera di gomma gigante sulle note di “Keelhauled”, immediatamente seguita dalla omonima “Alestorm”. La folla si agita sin da subito, saltellando, battendo le mani e cantando all’unisono, in un vorticoso susseguirsi di brani come “Mexico” e “The Sunk’n Norwegian”, i quali ci portano letteralmente da un capo all’altro del mondo; alla fine di quest’ultima possiamo inoltre assistere ad un epico crowdsurfing di due fan, di cui uno dedito al ruolo di tavola da surf mentre l’altro letteralmente lo cavalca, trasformando il pubblico sottostante in una sorta di mare in tempesta; si tratta di una delle tante perle che solo un concerto ad opera della ciurma di Christopher Bowes può regalare. Dopo la recente “No Grave But The Sea”, è il turno della combo composta da “Nancy The Tavern Wench” e dalla simpatica cover di “Hangover”, inframezzata dall’improvvisa “Rumpelkombo” e dalla comparsa sul palco di un tecnico del suono e di un mitologico ‘beefguy’ dall’altisonante nome di Yarr Face, in realtà vocalist degli statunitensi Rumahoy, che si scola una birra prima di partecipare al sopracitato brano di Taio Cruz insieme alla band. La navigazione tra i piaceri dell’alcool continua con la schiera formata da “Bar ünd Imbiss” e da tre inni tanto cari ai fan quali “Captain Morgan’s Revenge”, “Shipwrecked” e “Drink”, la quale riesce ulteriormente ad accendere la verve festaiola dei presenti. Avvicinandosi alla fine del viaggio, arriva finalmente il momento dell’acclamata “Wenches And Mead”, che nella seconda metà viene proposta dal buon Christopher con il solo abbaiare dei cani al posto delle parole, altro piccolo tesoro comico che il gruppo scozzese sfrutta al meglio per arricchire in maniera memorabile la propria prestazione scenica. Purtroppo è il momento di gettare l’ancora, o utilizzarla in altro modo, per accogliere la conclusiva e goliardica “Fucked With An Anchor”, che chiude un’esibizione piratesca memorabile, mentre la papera di gomma gigante saltella sulle teste del pubblico, intento a cantare il brano a squarciagola, in un oceano di diti medi.
(Gabriele Mucignat)

GOJIRA

Con la musica tanto martellante quanto sofisticata di uno dei più quotati gruppi francesi attualmente in circolazione, stiamo per intraprendere una rotta quasi astrale, nel bel mezzo dell’ultimo caldo pomeriggio del festival. L’atterraggio si dimostra travolgente già a partire dalle iniziali “Only Pain” e “The Heaviest Matter Of The Universe”, che proiettano letteralmente i presenti in un’altra dimensione, grazie a riff di chitarra abissali e ad una batteria serrata tipica del death metal, seppur la proposta musicale del quartetto del Paese dei Lumi sia notoriamente ben più vasta e ricercata di quanto potrebbe inizialmente sembrare. Inesorabili, con dei suoni massicci e a dir poco azzeccati, si susseguono le impetuose “Love”, “Stranded” e “The Cell”, incantando gli spettatori con melodie ficcanti e caratteristiche, impreziosite dal cantato del frontman Joe Duplantier, graffiato e nel contempo limpido, in grado di dare un tocco catartico all’ascolto. Nonostante il percepibile alone di serietà, il pubblico non perde l’occasione per dimostrare una viva simpatia nei confronti della band, omaggiando l’esecuzione di “Flying Whales” con il lancio di balene gonfiabili sopra le teste della folla. L’itinerario prosegue con la frustrante “L’Enfant Sauvage” ed il breve, ma elaborato, assolo di batteria di Mario Duplantier, che precedono la mistica “The Shooting Star” e la grintosa “Explosia”. Tuttavia non finisce qui: c’è ancora tempo per la premiata “Silvera”, preceduta dalle melodie di “Terra Inc”, e per l’immancabile chiusura con “Vacuity”, che sprigiona ancora una volta la potenza dei Gojira attraverso i colpi ben assestati di un drummer che fa piovere meteoriti sulle pelli, sotto il ronzio risoluto delle chitarre: il modo perfetto per portare a termine un’esibizione impeccabile sotto ogni punto di vista, dai musicisti in ottima forma sino agli effetti pirotecnici perfettamente sincronizzati con la parte musicale, che hanno intensificato l’esperienza di questo memorabile spettacolo.
(Gabriele Mucignat)

STEEL PANTHER

Anche gli Steel Panther rappresentano una realtà relativamente controversa all’interno del panorama, soprattutto per via di quell’atmosfera puramente goliardica, apprezzata da molti e disprezzata da altri, che si può respirare ogni qual volta il vulcanico Michael Starr e i suoi compagni, prontamente muniti di parrucca, si apprestano a calcare un palco insieme al loro hair metal demenziale e divertente. Come si può notare anche nella lunga pausa tra la iniziale “Goin’ In The Backdoor” e la successiva “Asian Hooker”, un concerto degli Steel Panther è anche una sorta di spettacolo di cabaret a base di argomenti a sfondo sessuale e disquisizioni esilaranti a proposito di situazioni più o meno improbabili, generalmente in linea con quello che sarà il brano successivo presente in scaletta: canzoni come “Fat Girl (Tear She Blows)”, “Poontang Boomerang” e “Turn Out The Lights” forniscono un’ottima occasione per farsi quattro risate in compagnia, senza però dimenticare che stiamo parlando di musicisti tutt’altro che impreparati, e gli assoli a opera del buon Russ ‘Satchel’ Parrish la dicono lunga su questo. Immancabile l’invasione di palco da parte di un numero indefinito di donzelle intente a ‘scoprirsi’ sull’accoppiata “17 Girls In A Row” e “Gloryhole”, anche se, guardandosi un po’ attorno, non è difficile accorgersi che non si tratta propriamente di un elemento difficile da adocchiare durante un concerto degli Steel Panther. Dopo una simpatica cover di “You Really Got Me” dei The Kinks, questo divertente show si conclude con la grintosa “Death To All But Metal” e con la rappresentativa “Party All Day (Fuck All Night)”, lasciandoci tutti con un sorriso sulla faccia e con la consapevolezza che, nel mondo del rock e del metal, c’è posto anche per questo tipo di intrattenimento.
(Roberto Guerra)

ENSIFERUM

Dopo aver goduto enormemente con Jari e i suoi Wintersun, arriva invece il momento di provare un discreto senso di amarezza con i connazionali Ensiferum, i quali ultimamente non si può proprio dire stiano navigando nelle loro migliori acque: partendo da un ultimo album di qualità drasticamente sotto le aspettative fino alla prematura separazione dalla fisarmonicista Netta Skog, attorno alla quale ruotano buona parte delle composizioni dell’album in questione. Inutile quindi dire che in sede live, col solo ausilio di basi, settate nemmeno così tanto bene, gli estratti più recenti non rendono assolutamente al meglio, finendo così con l’apparire ulteriormente noiosi e poco ispirati; a questo bisogna aggiungere un’esecuzione generale non impeccabile e sprovvista della giusta grinta e potenza, che non ha permesso a molti dei presenti di godersi al meglio brani ormai divenuti iconici come “Twilight Tavern”, “From Afar”, “Lai Lai Hei” o la conclusiva “Iron”. Trattandosi di una band cui comunque siamo molto affezionati, vogliamo augurarci che questo periodo di scarsa ispirazione, identificabile anche da una sorta di apparente calo di attenzione da parte di pubblico e riflettori, possa presto giungere al termine, permettendo a Petri e compagni di toccare nuovamente dei livelli degni della popolarità raggiunta negli anni, magari con un nuovo ingresso a gestire ottimamente il reparto orchestrale.
(Roberto Guerra)

ARCH ENEMY

Il Sole sta ormai per tramontare, ma l’ora più calda per il Faster Stage giunge proprio con l’arrivo di una delle band di genere melodic death metal più discusse ed acclamate del momento, il che si può facilmente intuire dalla nutritissima folla schierata sotto il palco, visibilmente non più nella pelle e prontamente esaltata dalle note di “Ace Of Spades” dei Motörhead, che preannuncia l’entrata in scena degli Arch Enemy. Un ingresso esplosivo con la recente “The World Is Yours” e, a raffica, tra vecchio e nuovo, la band propone “Ravenous”, “War Eternal” e “My Apocalypse”, conquistando immediatamente la scena e l’approvazione generale, mentre Alyssa White-Gluz sfila sul palco con la sua voce carica di rabbia, rubando i cuori di molti dei presenti, che hanno evidentemente occhi solo per lei, nonostante la parte strumentale gestita da musicisti del calibro di Michael Amott e Jeff Loomis sia allo stesso modo energica e coinvolgente. La scaletta si compone per metà di estratti provenienti dagli ultimi due album, come le più fresche “The Race”, “The Eagle Flies Alone” e “First Day In Hell”, insieme alle poco invecchiate “You Will Know My Name” e “As The Pages Burn”: si tratta tutto sommato di brani che poco osano, senza varcare la soglia dello straordinario, ma che tuttavia riescono a coinvolgere adeguatamente il pubblico grazie alla poderosa resa live, irrobustita molto anche da un comparto sonoro ottimamente curato. Ovviamente non mancano vecchie glorie come “Bloodstained Cross”, “Dead Bury Their Dead” e “We Will Rise”, che condiscono la performance con melodie più stagionate, in grado di incontrare l’apprezzamento anche dei fan più nostalgici e affezionati ai tempi in cui Angela Gossow infiammava il microfono. Con la ripresa di “Avalanche” e del pregiato assolo del sopracitato Jeff Loomis durante l’inizio dell’encore, si avvicina la conclusione di questo potente e riuscito concerto, realizzata nelle canoniche “Snow Bound” e “Nemesis”, seguite dall’outro strumentale di “Fields Of Desolation”, prima dei saluti da parte del gruppo.
(Gabriele Mucignat)

HELLOWEEN

Dopo averne parlato nuovamente non molto tempo fa, a seguito dello spettacolare concerto tenuto al Rock Fest di Barcellona, la nostra voglia di fare una scorpacciata di capolavori indiscussi marchiati con una Zucca non si è ancora saziata, anzi, riteniamo che non ci sia modo migliore di avviare alla chiusura questo evento mastodontico che con il primo effettivo show da headliner degli Helloween in quel di Wacken. Anche a questa tornata l’esibizione non si discosta molto dalle precedenti, ma abbiamo già ribadito quanto questo non sia necessariamente un male, anche perché di un inizio magnifico, come quello sulle note della lunga “Halloween”, non ci si stanca facilmente, così come di un continuo affidato a inni del calibro di “Dr. Stein”, “I’m Alive” e “Are You Metal?”, magistralmente interpretate dall’accoppiata vocale più discussa degli ultimi anni: parliamo ovviamente degli iconici Michael Kiske e Andi Deris, affiancati da quattro musicisti dall’incrollabile carisma, in particolar modo quel Kai Hansen che continua ancora, nonostante il suo recente rientro in formazione, ad apparire come il vero e indiscusso leader degli Helloween, in grado quasi di reggere il palco da solo con la sua presenza maiuscola. Tutto ciò, dopo la sempre apprezzata “Perfect Gentleman”, si fa ancora più palpabile al momento del granitico medley, cantato dallo stesso Kai, a base di “Starlight”, “Ride The Sky”, “Judas” e, ultima ma non ultima, “Heavy Metal Is The Law”, eseguite con la giuste dose di grinta ed essenza grezza, prima di lasciare nuovamente il posto ai due sopracitati frontmen con la commovente accoppiata “A Tale That Wasn’t Right” e “If I Could Fly”, sulle quali noi stessi non abbiamo saputo trattenere le lacrime. Siamo felici che la band abbia scelto di inserire in scaletta la nuova e micidiale “Pumpkins United”, la quale non solo dà il nome al tour ma ci fornisce anche uno spunto per sognare su ciò che gli Helloween saranno in grado di proporre nel futuro nuovo album, annunciato ufficialmente pochi giorni fa e atteso con forte trepidazione da tutti i fan delle Zucche di Amburgo. Si ritorna a commuoversi col tipico drum solo eseguito all’unisono da Dani Loble e dal compianto Ingo Schwitchenberg, per poi proseguire con una parziale “Livin’ Ain’t No Crime”, “A Little Time” e “Why?”, dopo la quale giunge la sorpresa con l’inaspettata “Rise And Fall”, sottovalutato e divertentissimo estratto proveniente dal periodo fine anni ’80. Andi è protagonista indiscusso su “Sole Survivor” e “Power”, così come all’annuncio della devastante “How Many Tears”, che precede anche il primo dei due encore, interamente dedicato al suo collega: “Eagle Fly Free” infiamma il cuore di tutti noi, così come la lunga “Keeper Of The Seven Keys”, sulla quale purtroppo il buon Michael Kiske sembra accusare un po’ il peso delle due ore precedenti, non riuscendo a raggiungere le note giuste a un volume adeguato in concomitanza del ritornello; non ci sentiamo di fargliene una colpa più del necessario, trattandosi di due pezzi in rapida successione tra i più tecnici dal punto di vista vocale, collocati per giunta a fine scaletta. Con “Future World” e “I Want Out” termina ancora una volta il concerto che, a prescindere da ogni possibile critica, è riuscito di nuovo a coinvolgerci emotivamente più di qualunque altro in questo festival, il che potrebbe forse renderci faziosi agli occhi di qualcuno, ma quando si riesce a mettere in piedi uno show tanto magico ed appassionante, reso alla perfezione grazie a dei suoni impeccabili e di impatto, è difficile non lasciarsi pervadere. Anche per questo, la sopracitata notizia riguardo la pubblicazione di un nuovo album ci ha lasciato con una forte sensazione di impazienza e hype, nella speranza di poter ancora godere numerose volte insieme agli instancabili musicisti che compongono la formazione. Piacciano o non piacciano, sempre lunga vita agli Helloween!
(Roberto Guerra)

HELLOWEEN Wacken Open Air 2018

HELLOWEEN Wacken Open Air 2018

Pubblicato da Power, Hard, Heavy, Thrash e Afins su Sabato 25 agosto 2018

DIMMU BORGIR

Una notte decisamente più fredda delle precedenti trova in Shagrath e soci una sorta di cavallo da battaglia, in grado potenzialmente di esaltare i numerosi estimatori di quella che, ancora oggi e nonostante gli evidenti passi falsi, si rivela essere una delle formazioni più amate del panorama black metal mondiale. Quando si assiste a un concerto dei Dimmu Borgir non è mai particolarmente semplice trovare le orecchie e gli occhi giusti con cui gustare ciò che proviene dal palco, soprattutto nel momento in cui diventa necessario dividere l’esecuzione in sé dal gradimento delle tracce proposte: la scaletta si compone infatti principalmente di brani provenienti dagli ultimi tre lavori in studio, i quali è ben risaputo che non godano propriamente di un apprezzamento unanime da parte di critica e pubblico, così come il controverso “Puritanical Euphoric Misanthropia” di cui qui troviamo ben due estratti, il che riduce al solo finale, composto dalla ispirata “Progenies Of The Great Apocalypse” e dalla immancabile “Mourning Palace”, il momento di effettivo godimento. Sebbene non si possa dire che i lavori recenti manchino del tutto di qualità, è tuttavia innegabile che il livello non sia assolutamente paragonabile a quello raggiunto in precedenza, e non basta un’esecuzione generale comunque degna di nota a risollevare le sorti di un concerto che ci ha lasciato con più di una nota amara in bocca. Tuttavia, se ne avete l’occasione, provate comunque a presenziare a un appuntamento live con Shagrath e compagni, poiché non è assolutamente tutto da buttare e, soprattutto in casi come questo, farsi un’idea propria è caldamente consigliato.
(Roberto Guerra)

Si conclude così la nostra ennesima esperienza in quel di Wacken, dopo la quale non possiamo che tornare a casa nuovamente con un forte senso di stanchezza, ma anche di soddisfazione e carica interiore, dovute alle numerose ore passate in compagnia di grandi band, le quali hanno reso ben più che giustificabile la fatica fatta per apprezzare al meglio un evento che, a prescindere da tutte le critiche più o meno meritate, continua a occupare uno spazietto nel nostro cuore metallico. Detto questo, da Metalitalia.com per ora è tutto…see you in Wacken, rain or shine!

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