Report di Giovanni Mascherpa
Foto per gentile concessione di PHRENETICA Photography & Design
Da qualche anno il berlinese De Mortem Et Diabolum Festival chiude a dicembre l’annata festivaliera, assieme all’olandese Eindhoven Metal Meeting, all’insegna di sonorità ferali e ancorate a un’idea tradizionale di metal estremo. Una manifestazione ricca quindi di suoni crudi, articolati, cosparsi di pece, malevolenza ed effluvi sulfurei, con una grande attenzione all’underground internazionale (soprattutto europeo) e un’apprezzabile varietà stilistica.
Dal 2022, gli organizzatori di tale evento hanno deciso di raddoppiare, mandando in scena in occasione della Notte della Valpurga (antica festa pagana celebrata nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio) un altro festival di coordinate simili, orientato a gruppi aventi una loro visibilità all’interno dei circuiti di competenza, e poco oltre. Rispetto all’happening dicembrino, quello in scena a fine aprile si concentra esplicitamente sul black metal e ne compendia molteplici ramificazioni, dando ampio risalto a linguaggi veementi ma attenti ad evocare, ognuno a modo suo, una specifica atmosfera. Il luogo delle operazioni è il medesimo del De Mortem Et Diabolum Festival, ovvero l’ORWOhaus, centro culturale posto in zona periferica della capitale tedesca, in una zona spoglia e anonima che ben si confà allo scopo del festival.
Nonostante il luogo si presenti disadorno e più simile, all’esterno, a un palazzo occupato che a un locale allestito in modo professionale, la realtà delle cose, come spesso capita a queste e più nordiche latitudini, si è rivelata decisamente felice: spazi ampi, atmosfera rilassata e gioviale, abbondanza di banchi del merchandise, prezzi umani un po’ per ogni cosa – mancava giusto un po’ di varietà nella scelta alimentare, considerando anche la lontananza da qualsiasi altro esercizio commerciale che potesse soddisfare gli appetiti dei convenuti. Poco male, è questo un dettaglio di poco conto rispetto agli innumerevoli lati positivi dell’ORWOhaus e di chi l’ha gestito in questi due giorni. Lontani da occhi indiscreti, in una venue spoglia ma ben organizzata sotto ogni punto di vista – tanto per dirne una, abbiamo trovato bagni in perfette condizioni dall’inizio alla fine del festival – qualche centinaio di metallari, in prevalenza tedeschi, ha potuto apprezzare un cartellone sfizioso in termini di quantità e qualità delle proposte.
I suoni sono stati eccellenti dal primo all’ultimo gruppo in cartellone, notevolissimi in particolare all’altezza di alcune esibizioni, bilanciati e in grado di appagare chiunque si sia trovato in sala. Considerando anche la grandezza della stessa, in rapporto al pubblico presente, è stato possibile assistere da vicino e senza alcuno stress a tutti i concerti, con conseguente beata sensazione di appagamento. Apprezzabili anche le ampie pause tra un set e l’altro – mai meno di mezz’ora – così da consentire un buon reintegro di energie prima di un’altra scorrazzata agli Inferi. Insomma, un’aggiunta di rilievo allo sterminato e originale panorama dei festival teutonici, che nelle sue manifestazioni più legate all’underground continua a offrire splendide soddisfazioni.
SABATO 29 APRILE
NEMESIS SOPOR
Ad aprire le ostilità, nel primo pomeriggio e con qualche minuto in anticipo sulla tabella di marcia, sono i Nemesis Sopor, freschi del quarto album “Firmament”. Disco pregevole e di forte personalità, le attese per l’esibizione del quartetto di Dresda sono abbastanza alte da parte nostra, considerando anche una militanza sulle scene non propriamente da novellini (sono in giro dal 2008).
Le presenze dinnanzi al palco non sono ancora moltissime – è questa una performance veramente per pochi – che i musicisti affrontano con calma e circospezione, concedendo nulla oltre alla mera arte di suonare. In questo se la cavano però benissimo, perché le articolate e torve atmosfere in loro possesso si diffondono efficacemente all’interno del locale. Aspri e determinati negli assalti, con un tocco di marzialità tipicamente germanico a imporsi, è quando si fanno strade arie più gloriose, oppure oscure e compassate, che i Nemesis Sopor espongono al meglio le loro doti. Il pungente labirintismo di alcuni passaggi e la vocalità sibilante rimandano alle cose migliori dei Dornenreich prima della svolta folk, mentre le profonde voci pulite fanno il loro dovere nell’ammantare di altra ombrosità una musica dettagliata ed enfatica.
Si aggiungono particolari e fascino col passare dei minuti, così da farci immergere completamente nell’immaginario pagano della formazione. Folk e paganesimo che ritroveremo ciclicamente all’interno del bill, nel caso dei Nemesis Sopor tali argomenti sono stati affrontati con classe e competenza, ben tangibili nell’esibizione di apertura del Walpurgisnacht.
SCITALIS
Ben altro scenario è quello che si presenta, visivamente e stilisticamente, con gli Scitalis. Si varcano i confini e si va in Svezia, per una band dalla storia breve e che ha sfornato il primo album, “Doomed Before Time”, soltanto nel 2022.
Ci sono tutti i crismi per uno spettacolo black metal ardentemente infernale: face painting netto, cappucci ben calati, tanto fumo a nascondere in parte i musicisti, sguardi stralunati di chi gradirebbe volentieri usare le maniere forti. L’approccio è crudelmente old-school, con i primi minuti vissuti in apnea sotto i colpi di un impianto strumentale furibondo e ben poco incline ai compromessi.
Superata una prima fase di fuoco a oltranza, si comincia a percepire che non vi siano solo violenza a oltranza nell’idea di black metal dei quattro. Pur mantenendo un livello di tensione altissimo e amando il parossismo, le composizioni degli Scitalis si mostrano presto come qualcosa di tormentato, febbrile e inquieto, guidate da uno screaming teatrale e di forte passionalità come quello di A, anche bassista. Il lavoro di chitarra denota varietà e un pizzico di profondità, la sezione ritmica non si adagia pigramente su velocità forsennate e monocordi; pur senza uscire dai confini di un black metal che deve molto alle origini svedesi del gruppo, il viaggio sonoro in loro compagnia si rivela tanto sfrenato quanto avvincente. Non i più personali e illuminanti del lotto, sicuramente tra quelli che danno l’anima dal vivo e si fanno ricordare per l’efficacia della loro azione.
ÄERA
Torniamo in Germania con gli Äera, che riprendono quelle rimembranze silvane e arcane, spesso cuore del black metal tedesco. Il loro è un black metal atmosferico, dall’ariosità e dalle fragranze tipiche di chi guarda a un passato mitizzato nel suo modo di intendere il genere: vi è equilibrio nel protrarsi in lunghe elucubrazioni sospese e nello sferrare, con buona regolarità, stacchi vibranti e di sufficiente violenza.
Le loro canzoni amano ampliarsi, gonfiarsi e quindi tornare sui propri passi, la circolarità non fa difetto alla band, come è evidente la scioltezza nell’affrontare il contesto live, nonostante stiamo parlando, come tante altre compagini nel bill, di un manipolo di musicisti che non compie tour su tour, anzi. A questo punto la partecipazione in sala è già cresciuta di molte unità rispetto all’apertura porte, il colpo d’occhio si è fatto interessante e l’attenzione dei presenti è decisamente alta. Niente chiacchiericcio, murate di smartphone a ingolfare la visuale, solo rapito ascolto e vivo supporto.
Il materiale dell’unico full-length “Schein” e dell’EP “Schattenfall” scalda i cuori, non riluce per chissà quale peculiarità ma mostra brio e compattezza, con crescendo impattanti e una forza comunicativa apprezzabile. Convincenti.
RIMRUNA
La riscoperta delle radici, affondate in un terreno fertile e intriso di rimandi alla tradizione, a riti di epoche passate, è di nuovo il fulcro sul quale imperniare il metal estremo, per plasmare un discorso di strozzante protervia e agghiacciante fomento. I Rimruna si rendono protagonisti di tre quarti d’ora da vivere con le spalle al muro, schiacciati da un’inondazione di note che non conosce tregua o punti d’attesa.
Praticamente padroni di casa – sono proprio di Berlino – i due musicisti, incappucciati e piuttosto incuranti di chi abbiano di fronte, viaggiano veloci e contorti, ammassando accelerazioni e partiture chitarristiche fumiganti e tumultuose, sacrificando l’atmosfera a favore di un assalto da più direzioni molto, ma proprio molto, doloroso. Se su disco la proposta risulta altrettanto temibile ma tendente a uno zanzaroso suono old-school, dal vivo il discorso, pur non stravolgendosi, prende una piega differente, avvicinando l’operato di Wintergrimm (voce e chitarra) e Hiverfroid (batteria) – protagonisti anche del progetto Drengskapur, sempre se vi piace questa corrente del black metal tedesco – a quello di Spectral Lore e Mare Cognitum.
Musica tracimante energia e pulsazioni vitali, che anche in ragione della durata assai prolungata delle singole canzoni (pure per i Rimruna si va volentieri oltre i dieci minuti) finisce per diventare uno stordente unicum, una spettacolarizzazione sfiancante del black metal. Al di là della volontà di eccedere e pensare il proprio show come qualcosa di quasi insostenibile, anche per chi maneggia con piacere questi suoni, il duo sa esprimersi magnificamente in questi contesti, abbinando all’intensità un’esecuzione dettagliata e dai mille piccoli particolari. Difficile rimanere indifferenti davanti a una simile attitudine.
BALMOG
Ben altro modo di interpretare la materia è quello dei Balmog, in arrivo dalla Spagna. Qui tutto il campionario guarda altrove, distaccandosi dal mood serioso e compassato che hanno tenuto il grosso dei musicisti visti all’opera fino a questo punto: i quattro galiziani si rifanno piuttosto ai dioscuri del metal classico e dell’extreme metal più dinamici e scatenati nelle pose e nelle movenze, officiando canzoni appassionate e trascinanti, che pescano a piene mani dagli Watain, il thrash più estremo e qualche scampolo di heavy metal puro, rinvenibile in particolare all’altezza delle linee di chitarra solista e di alcune melodie molto pronunciate.
Le sfumature dark rock e post-punk degli EP “Pillars Of Salt” e “Covenants Of Salt” (in uscita proprio il giorno prima del concerto berlinese) e dell’album “Eve” si fanno riconoscere, anche se non hanno lo stesso peso delle prove in studio, e contribuiscono a dare angolature singolari al forsennato incedere del gruppo. I Balmog mettono in mostra identità differenti da un pezzo all’altro, a volte infilzandoci sdegnosamente con attacchi iracondi, in altre occasioni blandendoci viziosamente, pur senza diluire la propria veemenza.
Balc a voce e chitarra è un agitatore d’animi di prim’ordine, chi gli sta a fianco è della medesima pasta, così il concerto può prendere una piega assai fisica e carnale, in contrapposizione al relativo distacco chi ha suonato in precedenza. Giochi di luce prevalentemente sul rosso sottolineano la satanica missione del quartetto, apprezzato e sostenuto da un’audience fattasi ancora un poco più fitta che nelle prime ore di festival.
NAÐRA
Se i Balmog si sono mossi con una certa palpabile fisicità sul palco, sono parsi degli angioletti in raffronto ai Naðra. Se il nome dovesse suscitare qualche comprensibile punto interrogativo, basti sapere che sono l’altra band di 3/4 dei Misþyrming, attualmente ben più noti nei circuiti underground. Ma anche quest’altra incarnazione di black metal islandese non è poi così tanto da meno quanto a efferatezza, piglio oltranzista e idee funamboliche, anche se qualche tangibile distacco dagli autori del recente “Með hamri” si percepisce.
Semplificando il discorso e dandone un sommario inquadramento, i Naðra sono dei Misþyrming più dritti e dai modi spicci, dato che sono limitate le escursioni verso atmosfere allucinate e sofisticate, abbondanti invece nell’operato dei più rinomati ‘fratelli’. Quello che non cambia affatto è il modo sfrontato, aggressivo e indemoniato col quale i musicisti si annunciano e vanno avanti, come giovani cavalieri dell’apocalisse, a infierire sull’uditorio. A partire dal frontman Ö, fino a chi siede dietro i tamburi, è una gara a chi ci va giù più pesante e deviato, in preda a una lucida isteria che non inficia minimamente la qualità di quanto suonato. Le armonie e le divagazioni istrioniche tipiche del miglior black metal della terra dei ghiacci sono incrociate a pulsioni epiche e una carica selvaggia degna dei precursori del genere.
Adrenalina pura i Naðra, un sovraccarico di idee, mazzate ed esplorazioni sonore che quasi incenerisce le pur ottime formazioni ammirate prima di loro, perché l’esplosività della quale siamo vittime va oltre la ragionevolezza. Il materiale dell’unico album “Allir vegir til glötunar” e dell’EP “Form” (risalenti al 2016 entrambi) viene suonato all’impazzata, soddisfacendo in pieno le attese di fan e novizi. Punto esclamativo della prima giornata.
ENDSTILLE
Arriviamo a quelli che, per peso della discografia e notorietà, sono i primi dei due headliner del sabato, gli unici con un’ora di tempo a disposizione. Gli Endstille sono una istituzione del metal estremo tedesco, anche se sono discograficamente assenti da circa dieci anni (l’ultimo “Kapitulation 2013” risale proprio al 2013) la loro fama non si è attenuata nel tempo. Anche i loro concerti non sono poi frequentissimi e questo sarà uno dei pochi live dell’annata per loro.
Stranamente, il loro impatto durante le prime canzoni è abbastanza soft, complice il confronto con i Naðra, un atteggiamento quasi serafico e un tipo di sonorità meno spumeggiante e più rigido dei colleghi esibitisi nei due slot precedenti. Ci si mettono anche lunghe pause tra una canzone e l’altra, che paiono essere gradite dal pubblico in sala: il frontman Zingultus si profonde in quelli che, ci sembrano (ahinoi, la nostra conoscenza del tedesco è pressoché nulla), momenti di gustoso humour germanico, almeno a osservare le risate di gusto di chi abbiamo attorno e il ghigno di Zingultus stesso.
Gradatamente la band sale di colpi e dalla relativa calma iniziale si passa a un pathos più palpabile, tanto che si avverte anche qualche accenno di mosh, limitato nelle unità ma pur sempre una novità nella due giorni. Quelli degli Endstille per molti presenti sono dei veri classici, l’accoglienza per alcuni episodi è davvero calorosa e questo ringalluzzisce anche i musicisti, sempre più spigliati col passare dei minuti. La patina di routine va fortunatamente a perdersi e anche gli Endstille, pur senza offrire un concerto memorabile, compiono in pieno il proprio dovere, per la soddisfazione di una platea che definire accogliente nei loro confronti è dir poco.
MORK
I Mork arrivano a chiudere il programma, nel cuore della notte berlinese, e lo fanno sfoggiando tutto quel sentito carico di grigiore, freddezza e sinistre profezie mortuarie che la loro musica sa effondere. Un suono grondante Norvegia da ogni sua minuscola fenditura, un ideale ponte tra i tempi dei primi Darkthrone e Satyricon e la scena attuale, con graditi richiami epici e doom a speziare moderatamente il black metal officiato da Thomas Eriksen. Negli ultimi anni la sua creatura è stata molto attiva, inanellando a stretto giro tre album molto convincenti e a loro modo sfaccettati come “Det svarte juv”, “Katedralen” e il recentissimo “Dypet”. Cala il gelo all’ORWOhaus, una bieca penombra si adagia sullo stage e sentori di un inverno solitario e triste avvolgono la venue.
È un suono scarno e ricco di suggestione quello disegnato negli anni da Eriksen, che con pochi ingredienti sa essere ben più emotivo e ficcante di gruppi più ambiziosi e ricercati nella proposta. La pulizia delle linee melodiche è un tratto inconfondibile della band, i membri live della formazione sono perfettamente inseriti, nel modo di suonare e di porsi, nel concept dei Mork e va quindi in scena un’ode al black metal più ancestralmente emotivo. Tempi mediamente controllati, se non addirittura lenti e sornioni, ci accompagnano al cuore del genere, al suo spirito primigenio, scossi oppure soggiogati dal gracchiare di Eriksen e dalle sue gradite variazioni in austero cantato pulito. Ottima chiusura del primo giorno di festival.
DOMENICA 30 APRILE
TRU’NEMBRA
Per il secondo giorno ci attardiamo leggermente gironzolando per Berlino e arriviamo all’ORWOhaus quando il concerto dei Tru’nembra è già cominciato. Riusciamo a fruirne circa metà, mentre davanti al palco ci sono ancora poche persone. Almeno fino a metà pomeriggio, a dire il vero, ci pare che l’afflusso sia inferiore rispetto a quello del sabato, salvo crescere esponenzialmente per gli ultimi gruppi in programma. Mentre, appunto, quando i berlinesi sono in azione il colpo d’occhio non è indimenticabile.
La band, tra tutte quelle ammirate, è quella che pare avere minor feeling coi live: oltre a stare molto sulle sue ci sembra difetti di un po’ di brio, pur considerando il tipo di suono relativamente mellifluo e circospetto che espone. Quella dei Tru’nembra è musica piuttosto enigmatica, c’è il black metal ma è solo una porzione, per quanto importante, dell’intero mosaico. Ci si ferma spesso in pause dilatate e tenui afflizioni, trasecolando in volute doom di ampio respiro, ben rifinite ma che non aiutano a entrare in piena sintonia con l’operato del gruppo.
Da parte loro i musicisti suonano in modo preciso e coeso, dando prova di un’eleganza e di un tatto che avvalora la sensazione di non trovarsi di fronte a un ‘tipico’ ensemble black metal. Il materiale dell’unico album “Mare Vetus” desta comunque una discreta impressione, i ragazzi non scontano affatto approssimazione o una scrittura scialba. Piacevoli, anche se meno impattanti del resto del bill.
LICHTBLICK
Con gli austriaci Lichtblick abbiamo invece una gradita sorpresa. Ci infiliamo completamente nel filone depressive black metal, con una prova che unisce strazio, sofferenza indicibile e combattivo tormento. Le perturbazioni della mente si riflettono in uno stile che guarda a Lifelover, Forgotten Tomb e, soprattutto, Ghost Bath; a catalizzare le attenzioni è la figura del cantante A., che si dibatte in quelle che potrebbero sembrare lievi convulsioni, deformando il volto e le parole per sintetizzare la sua idea di strozzato dolore. Non sono dei biechi toni commiserevoli a dare l’impronta più importante al quartetto, le canzoni sono ben strutturate e dinamiche, crepitanti uno spettro sensoriale di grande afflizione ma che sa infondere anche una cospicua dose di energia.
Vestiti di nero e senza alcun trucco di scena ad accompagnarli, i Lichtblick fanno urlare angosciose canzoni tese tra uno sconforto inconsolabile e graffi letali. Dal vivo non capita spessissimo di imbattersi in una simile attitudine, si respira vera aria di malessere al cospetto degli estratti di “Phrenesis” e “Abkehr”, i due album prodotti finora. Precisi e asciutti nel modo di suonare e di rapportarsi a chi hanno di fronte, i Lichtblick spiccano per personalità all’interno del bill e si fanno ricordare per un modo tutto loro di raccontarsi, fatto di sentimenti crudi, sonorità grumose e affilate e morbosa mestizia.
SILENT LEGES INTER ARMA
Altro brusco cambio di scenario, con l’entrata in scena dei Silent Leges Inter Arma. Sono un prodotto dell’underground tedesco, una di quelle piccole realtà che puntella una scena forte, fitta e che accanto ai nomi illustri vede vivere, dignitosamente e con qualche guizzo, formazioni minori come questa. Non stiamo parlando di una perla rara, di talenti abbacinanti rimasti per misteriose ragioni lontani da un apprezzamento più ampio; piuttosto, ci confrontiamo con due ottimi artigiani dell’extreme metal a tutto tondo, autori di una musica di cuore, pancia, conoscenza enciclopedica dei sottogeneri e sufficiente ispirazione compositiva. Due i dischi nel repertorio degli esperti strumentisti di Rostock, l’omonimo e “Ad Plures Ire”, pubblicati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro (2012 e 2022).
Lungi dall’essere innovativi od originali, i Silent Leges Inter Arma forniscono però una rilettura grintosa e tumultuosa di classici stilemi black, death e thrash metal, con l’indole a complicarsi lievemente la vita e protrarre le proprie aggressioni per minutaggi assai corposi. Ne esce un ibrido a suo modo difficile da inquadrare, nel quale la brutalità spiccia e spontanea del metal estremo di fine anni ’80-primi ’90 viene accorpato e pigiato in una matassa greve, ruvida e colorita da partiture di chitarra piuttosto intricate. Come accaduto per i Rimruna il giorno prima, con modalità differenti, è questo un concerto che mette a dura prova, proprio per questo incedere sempre pressante, voluminoso, dalle radissime pause, gretto ma dalle innumerevoli, piccole variazioni di tono al suo interno. La definiremmo una materia old-school per chi vive ben dentro l’underground, che desidera sfaccettature e complessità, basta che non si rifinisca troppo l’insieme. Apprezzabili.
FIRTAN
In un festival non esattamente contraddistinto da arredamenti di scena ingombranti o particolare meticolosità nel caratterizzare la componente visuale, ci pensano i Firtan a dare un tocco di colore e atmosfera che soddisfi anche gli occhi. Oltre al classico fondale alle spalle della batteria ci sono un paio di stendardi ai lati, questi sì ben evidenti, con una simbologia che richiama le radici folk/viking del loro black metal. Anche il corpsepainting, pur non presentando dettagli clamorosi, pare abbastanza studiato.
Ci mettono una certa attenzione anche per rifinire i suoni, particolarmente delicati per la presenza del violino di Klara Bachmair, così che i tempi si allungano lievemente, facendo partire per la prima volta in ritardo un’esibizione. Poco male, perché i Firtan giustificano in pieno le relative lungaggini del loro cambio palco con un concerto fascinoso e melodicamente incantato.
Con “Marter” le dettagliate, piccole, esuberanze insite nel loro DNA si sono ricavate ulteriore spazio e quest’anima poliedrica esce ancora più forte e carica di pathos in sede live. Se si ha presente il loro operato, basti pensare che ogni elemento viene rinvigorito e aizzato durante un concerto; più violenti, stratificati e gloriosi, nel loro epic black metal dalle sfumature progressive e folk, i Firtan si distinguono dal resto del bill per le melodie cristalline e la perfetta pulizia esecutiva; la quale però non va a discapito di una contagiosa spinta ascensionale, verso una musica che sa di calibrata catarsi sensoriale, con il violino che si inserisce tra le interazioni di chitarra con moti vibranti e dolce poesia.
Complice anche un modo di porsi nient’affatto compassato e un affiatamento facilmente osservabile, i ragazzi tedeschi fanno un figurone, offrendo anche un’ariosità strumentale non propriamente usueta al Walpurgisnacht Festival.
NOCTE OBDUCTA
I Nocte Obducta hanno alle spalle una storia discografica lunghissima, spaziante tra molti approcci possibili al black metal, tanto da essersi guadagnati negli anni anche l’appellativo ‘avant-garde’, per sintetizzare alcune loro sperimentazioni. Di fronte a tale ampiezza di vedute, solo parzialmente rinnegata con l’ultimo, più rude ma comunque non proprio semplice nei contenuti, “Irrlicht (Es schlägt dem Mond ein kaltes Herz)”, tutto ci saremmo attesi fuorché il cafone modo di fare tenuto durante il concerto.
Considerata l’affluenza sotto il palco, pare di assistere a degli headliner: si capisce che siano tra i più attesi dell’intera due giorni, e che il contegno di molti dei presenti sia in procinto di essere abolito, almeno per l’ora in compagnia dei Nocte Obducta. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a una lercia ciurma di black metaller dalla spiccata indole crust/punk: il riffing è rapido, gretto e urgente, siamo feriti e infettati da mille spigoli, e la prova vocale stessa sforna tossicità in serie, lasciandoci un poco interdetti ma trovando pieno accoglimento nel pubblico. Appare chiaro che questa conformazione ostile piaccia molto a chi sta in sala, come sono gradite – parimenti a quanto accaduto con gli Endstille –le (crediamo) salaci batture del frontman Torsten, a quanto pare pure ottimo intrattenitore, stando alle crasse risate di chi ci circonda.
Ribadito il nostro rammarico per non potere apprezzare i giochi di parole e l’umorismo autoctono, i contenuti strettamente musicali, pur non trovando il nostro pieno favore, sono esposti con ferocia e causticità degne di così navigati personaggi. Nell’ultima di parte di setlist si riaffacciano le strane voglie atmosferiche che hanno fatto la fortuna di diversi episodi della discografia dei Nostri, pur permeate di una sordidezza non per forza presente in studio. Attorno vediamo solo facce soddisfatte e questo, in fondo, è quel che conta.
PSYCHONAUT 4
Non in moltissimi sanno probabilmente collocare la Georgia su una cartina geografica (chi scrive è tra quelli che la immaginano sempre un po’ più a ovest di dove effettivamente sta), difficile anche che si abbia contezza della sua scena metal; invece, oramai dai molti anni, a essere ben noti nell’underground c’una delle migliori entità del movimento depressive black metal, ovvero gli Psychonaut 4, provenienti proprio dalla capitale georgiana.
Dall’esordio su lunga distanza “Have A Nice Trip”, un classico del genere, i ragazzi di Tbilisi hanno compiuto passi enormi in termini di popolarità e – nonostante la lontananza geografica dalla scena europea a noi più vicina – qualche sortita verso occidente saltuariamente la compiono. Rimane il fatto che non sia propriamente usuale vederli all’opera in un festival ‘nostrano’, ed è quindi un evento incontrarli e guardarli negli occhi all’ ORWOhaus.
E in effetti si sente il clima di attesa, i georgiani hanno in serbo ottima musica e canzoni che rapiscono la parte più nera e intrisa di malessere dell’anima, toccando un grado di autenticità e partecipazione emotiva che non passa inosservato. La band è in gran forma, sfacciata e ‘dentro’ il suo concept, ma non si adagia su un’idea di semplice autocompiacimento e ostentazione di afflizione: come su disco, le loro melodie caricano di energia e provocano struggimento, coccolano nella tristezza e schiaffeggiano ruggenti. Divenuti negli anni meno ruvidi e fin levigati e catchy in alcuni frangenti, gli Psychonaut 4 dal vivo sono incendiari quanto finemente malinconici, potendo contare anche su un’interpretazione vocale vasta e tarantolata. L’eccentricità vocale e l’aria spiritata di Graf e le seconde voci commiserevoli del chitarrista Drifter colpiscono al cuore, le stralunate cadenze folk, quasi da festa di matrimonio già virata in drammatico divorzio, incrementano i sentori di unicità della proposta, eccezionale in canzoni come “Tbilisian Tragedy” e “Sana Sana Sana – Cura Cura Cura”.
I singoli episodi sono ben conosciuti dalla preparata audience berlinese, quindi non stupiscono più di tanto le ovazioni all’annuncio di alcuni pezzi, affrontati con piglio battagliero dai caucasici. Veramente qualcosa di unico, gli Psychonaut 4, dei quali speriamo di ascoltare presto nuova musica, al momento già in avanzata fase di lavorazione.
ASAGRAUM
In un festival interamente dedicato al black metal, c’è qualcosa che suona – e appare – come ancora più ‘true’, ‘evil’, ‘kult’ di qualsiasi altra forma musicale apprezzata in questa prolungata Notte di Valpurga: parliamo delle Asagraum, gruppo interamente al femminile che con “Potestas Magicum Diaboli” e “Dawn of Infinite Fire” si è intrufolata nel solitamente ben più maschile mondo del black metal tradizionale.
Se si va a nozze con l’interpretazione ortodossa, incompromissoria, spietata del genere, queste ragazze sono veramente qualcosa da non lasciarsi scappare. E a fronte di una qualità artistica già soddisfacente, ci si mettono carisma e ostentata malignità a far inabissare, verso Inferi fiammeggianti e urlanti le peggiori nefandezze, le nostre povere anime, corrotte e piegate da uno sferragliare di gran classe.
Le Asagraum vincono a mani basse la palma per il face painting più terrificante della manifestazione, ed è anche nel contegno, in come semplicemente impersonano la musica suonata, che si nota il valore della formazione. Dovendo riassumere in una singola parola quanto visto e sentito, spenderemmo il termine ‘autorevolezza’: qua non si prova ad essere black metal e a convincere il prossimo, si è e basta, e nessuno potrebbe rimanere indifferente di fronte a cotanta ostilità. Le canzoni viaggiano tetragone e inesorabili, miscelando scuola novantiana e i migliori esponenti di coloro che attualizzano la sempre magica lezione dei primordi: più che singoli episodi, è l’esperienza sonora tutta a rimanere impressa, gettando su di noi cateratte di tetra e vera malvagità.
In un mondo sempre più incanalato verso il culto dell’apparenza, lo screaming di Obscura e il sadico riffing di chitarra ci ricordano quanta occulta nefandezza si possa emanare con gli strumenti in mano, pur suonando tradizionali e senza offrire chissà quale idea fuori dagli schemi. Spaventose.
MISÞYRMING
Sarebbe valsa la pena venire a Berlino anche soltanto per godersi l’ora concessa ai Misþyrming quale raggiante chiosa del Walpurgisnacht. Niente meno che memorabile, il concerto degli islandesi, già visti all’opera quasi integralmente il giorno precedente con i Naðra e di nuovo affamati di apocalisse mentre gli astanti, lievemente prostrati ma ancora vispi, si accalcano vicino al palco.
Euforia, iperviolenza, bramosia di scandagliare le sonorità più eccentricamente malate, ma rigorose nella forma, che il black metal possa esprimere: i Misþyrming sono attualmente in uno stato di completa onnipotenza, possono permettersi qualsiasi cosa, e lo fanno, dandoci in pasto uno di quei concerti destinati a spiccare in futuro nella memoria di chi ha avuto la fortuna di esserci. Invasati e collerici, ma strumentalmente eccelsi, i ragazzi di Reykjavík tracimano l’esuberanza di chi sa di potersi permettere qualsiasi cosa, nei modi e negli atti.
E allora si vive il concerto ebbri della loro calibrata foga strumentale, compiacendosi dell’eccesso di violenza, della fantasia esecutiva e della pregiata qualità di riff e atmosfere. Si rimane francamente stupiti da come riescano a riproporre le trame dei dischi, aggiungendovi un tocco di ulteriore potenza e classe, condendo quanto suonato con una presenza scenica da prim’attori. Le linee di chitarra solista inumidite di psichedelia, lo spropositato attacco vocale a più voci, la foga intricata e chirurgica della sezione ritmica, restituiscono l’immagine di una band in questo momento difficile da eguagliare nell’ambiente live. Non mollano un secondo, tracotanti e fuori dai gangheri pur suonando perfettamente l’intera scaletta, senza perdere la bussola, senza abbandonarsi al caos. Tra un’” Og er haustið líður undir lok” e un’”Engin miskunn”, “Söngur heiftar” e “Ísland, steingelda krummaskuð” (in chiusura nei bis), impossibile non sfamarsi pienamente. Oltre ogni limite, niente meno che superbi: una di quelle realtà da godere adesso, nel pieno della forma, nel pieno della gioventù.