Report a cura di Giacomo Slongo
Fotografie di Benedetta Gaiani
Trident’s Curse, ossia il tour black metal dell’anno. Svezia, Grecia e Stati Uniti nel segno della Nera Fiamma e delle sue sonorità diaboliche, con i sempre più lanciati Watain a fungere da traino di un pacchetto completato dai veterani Rotting Christ, ormai di casa dalle nostre parti, e dagli immarcescibili Profanatica. Un appuntamento sulla carta di sicuro richiamo, come testimoniato dall’affluenza di pubblico nelle precedenti date europee, ma che in quel di Trezzo sull’Adda si è rivelato appetibile solo per qualche centinaio di spettatori, con il Live Music Club settato in versione B per limitare l’effetto ‘terra di nessuno’ nel pit. Tante le possibili spiegazioni, dai mesi trascorsi dalla pubblicazione di “Trident Wolf Eclipse” (con relativo scemamento dell’hype) al sovrapporsi con la data degli Armored Saint al Legend Club e del match Milan-Juventus a San Siro, passando per una scelta di location – forse – troppo avventata per l’effettivo seguito degli headliner in Italia. Un vero peccato, l’unico di una serata concertistica da annoverare tra le migliori dell’anno…
PROFANATICA
Al secondo tour europeo nel giro di pochi mesi, i Profanatica stanno inaspettatamente attraversando una delle fasi più fortunate del loro percorso artistico a base di bestemmie e black metal primigenio. In pochi si sarebbero aspettati un simile colpo di coda da parte del gruppo statunitense, specie dopo l’abbandono di quello che – lo ricordiamo – era uno dei motori trainanti del progetto, il chitarrista John Gelso. Ma vuoi per la visibilità di cui oggi gode il filone old school, vuoi per una serie di innesti azzeccati in line-up, all’alba dei cinquant’anni Paul Ledney può finalmente togliersi qualche soddisfazione e portare la sua musica su un altro livello di diffusione e continuità. L’EP “Altar Of The Virgin Whore” è stato pubblicato da pochi giorni, ma chi ha dimestichezza con lo stile dei Nostri sa bene quanto questo, in fin dei conti, sia un dettaglio irrilevante; che si parli di brani scritti nel 1991 o nel 2018 il risultato con i black metaller del Connecticut è sempre il medesimo: blasfemia e barbarie tradotte in un sound che non conosce il significato del termine ‘compromesso’, privo di grosse variazioni a livello ritmico e chitarristico. Una fiera dell’ignoranza e della semplicità che si sposa giocoforza alla dimensione live, messa in scena da una formazione che, pur con evidenti limiti, esprime solidità e concretezza ad ogni passaggio della setlist. Ledney, in particolare, si mostra particolarmente a suo agio nella duplice veste di cantante/batterista, restituendo con il suo screaming marcissimo la carica satanica di ‘hit’ come “Weeping In Heaven” e “Your Crucifixion Your Death” e non faticando a rubare la scena agli altri due membri ‘di movimento’ sul palco. Un frullato a base di Beherit, Blasphemy e Sarcófago immutabile dall’inizio alla fine (ascoltata una canzone, ascoltate tutte!), da assimilare senza particolari pretese. Un buon avvio di serata, comunque.
ROTTING CHRIST
Quante volte i Rotting Christ hanno suonato in Italia negli ultimi anni? Francamente abbiamo perso il conto. E quante volte è capitato di poterli ammirare su un palco di tutto rispetto come quello del Live Music Club? Se la memoria non ci inganna, nessuna. Già solo questo aspetto rende l’ennesima calata di Sakis Tolis e compagni un piccolo evento per i loro fan, ben consci delle potenzialità live del quartetto e di ciò che solitamente è in grado di trasmettere un loro show. Il brano chiamato a dare fuoco alle polveri è “666”, da quel “Κατά τον δαίμονα εαυτού” da considerarsi ormai l’emblema del nuovo corso della band, e per quanto la sua esecuzione non presenti pecche evidentissime non è neppure la scarica di adrenalina che in tanti – noi compresi – si aspettavano. Pur godendo di suoni molto definiti e di un impianto scenico degno delle migliori occasioni, il proverbiale impatto dei Nostri non riesce sulle prime a manifestarsi, complice un Sakis forse un po’ stanco e in fase di riscaldamento dietro al microfono. A supporto del cantante/chitarrista arrivano per fortuna i ‘nuovi’ Van Ace e George Emmanuel, che con le loro backing vocals e la loro prestanza fisica colmano il vuoto temporaneo del frontman, permettendo così allo show di mantenersi sui giusti binari e di non far registrare battute d’arresto. Superato l’impasse, durante il quale viene anche presentata l’inedita “Fire, God And Fear”, dal quattordicesimo full-length “The Heretics” in uscita nei primi mesi del 2019, i meccanismi tornano a girare come da abitudine, i ritmi si intensificano e, tra una storica “The Sign Of Evil Existence” e un’altrettanto ben assestata “In Yumen-Xibalba”, il concerto si conclude di fatto in un crescendo di intensità e vigore. Ennesima prestazione di cuore che, preso atto dell’incipit non indimenticabile, spiana definitivamente la strada alle tenebre degli headliner.
WATAIN
Il miglior gruppo black metal della sua generazione? Forse. Di sicuro quello che dal vivo, più di ogni altro, riesce a colpire nel segno per via di una combinazione letale di presenza scenica, doti tecniche e reale convinzione nel messaggio satanico dei propri testi. I Watain si prendono sul serio, non amano scendere a compromessi (anche se per imposizioni del locale durante la serata non ricorreranno né al sangue di maiale, né alle consuete scenografie infuocate) e i loro show ne sono sempre una prova concreta e formalmente esente da critiche. A rischio di apparire faziosi, ci risulta davvero difficile nascondere l’entusiasmo verso una performance – l’ennesima – tanto curata e sentita, affrontata da una band ormai consapevolissima del proprio ruolo all’interno del movimento estremo. H. Death e E. Forcas, dal vivo, possono essere considerati dei pilastri alla stregua del bassista Alvaro Lillo, e anche il loro compagno nei Degial R. Meresin – chiamato a sostituire temporaneamente il ‘nostro’ Set Teitan – dà l’impressione di suonare con il progetto di Stoccolma da una vita. L’urgenza e l’affiatamento sprigionati dal comparto strumentale sono a tutti gli effetti da KO e trovano la loro sublimazione in quello spettacolo dentro allo spettacolo che è la prova di Erik Danielsson, completamente calato nelle vesti di frontman con il carisma della sua gestualità e del suo screaming intelligibile. Circondati da tridenti e croci rovesciate, immersi in una luce rossastra che acuisce la sensazione di trovarsi in una bolgia infernale, i cinque black metaller iniziano e finiscono il loro rituale sulle note di due estratti da “Sworn To The Dark”, “Storm Of The Antichrist” e l’epica “The Serpent’s Chalice”; nel mezzo, accomunati da un fervore nell’esecuzione che guarda più alla scuola death/thrash che a quella black, una serie di brani volti a ripercorrere l’intera discografia del gruppo, con un occhio di riguardo per il recente “Trident Wolf Eclipse” e le sue scorribande sanguigne (si pensi a “Nuclear Alchemy” o a “Sacred Damnation”). Poco più di sessanta minuti di musica genuinamente diabolici e trascinanti, privi di approssimazioni o facili vie di fuga. Un attestato di talento e classe da parte di coloro che, non a caso, vennero indicati dai Dissection come loro eredi spirituali. Impossibile chiedere di più ad un concerto black metal nel 2018.