23/06/2024 - WAYFARER + DREADNOUGHT + THYSIA @ Rock Pub Centrale - Erba (CO)

Pubblicato il 28/06/2024 da

Report di Sara Sostini
Foto per gentile concessione di Nicolò Brambilla (Necrotheism Prod.)

Gli Stati Uniti – la loro storia, le contraddizioni culturali – sono stati raccontati, negli anni, attraverso molteplici stili e generi musicali.
All’interno della nostra amusica preferita, i Wayfarer hanno saputo con gli anni raffinare la loro propria, personalissima formula nel farlo, coniugando un black metal dai richiami vagamente cascadiani, soprattutto nella costruzione di un certo tipo di atmosfera ‘naturalistica’, con un gusto melodico dai risvolti country/folk raffinati.
Un connubio reso ancora più efficace dalla polverosa, decadente patina di desolazione western che, con i bellissimi “World’s Blood” e “A Romance In Violence” prima, e soprattutto col recente, acclamato “American Gothic”, vero e proprio paradigma di tale unione, li ha portati in giro per il mondo come nerissimi affabulatori di un mondo cristallizzato tra pozzi di petrolio, ferrovie, ladri di bestiame, deserto rosso e i volti dei pionieri segnati dalla fame di successo.

Li avevamo visti la scorsa primavera in apertura degli Enslaved, e avevamo avuto modo di saggiare l’effettiva bontà dei pezzi in un set breve ma carico di energia; siamo quindi stati ben contenti quando abbiamo letto del ritorno in Italia da headliner nel giro di pochi mesi con due date; la sempre attenta Necrotheism Prod. ha scommesso su quella comasca, al Centrale Rock Pub di Erba – una scommessa, come vedremo, purtroppo vinta a metà in termini di pubblico.
Ad accompagnare il quartetto di Denver, Colorado, i concittadini Dreadnought, più spostati su territori prog e vagamente avantgarde, e gli italiani Thysia, formazione veneta (con al proprio interno membri di Messa e Assumption) foriera di black metal bellicoso e scuro. Vediamo com’è andata.

È un’ennesima domenica di pioggia quella che ci accompagna fin sulla soglia del Centrale; e forse questo, oltre al recente passaggio degli headliner come accennato nell’introduzione, contribuisce a penalizzare un po’ l’affluenza di pubblico, purtroppo mai veramente numeroso durante tutta la serata.
I THYSIA non si fanno però spaventare da ciò e, lordi il giusto di facepainting nero e catene, attaccano il loro set a testa bassa: note gelide, affilate e corrosive piovono sugli astanti con tutta la loro distruttiva potenza, riuscendo al tempo stesso a portare con sè il caldo di numerosi inferni. I quattro musicisti sul palco non si fermano praticamente mai, intessendo un arazzo spietato in cui cosmogonie nichiliste crescono e decadono, martellando sugli strumenti e sul microfono in un lavoro di forgia in cui i Celtic Frost si legano idealmente con la scuola ellenica dei Varathron, arricchendo gli estratti dal debutto “Islands In Cosmic Darkness” di una ulteriore sfumatura di violenza ferina – come per esempio durante “Nexus of Cataclysm Forces”.
Un inizio serata davvero non male.
Si cambia totalmente lido, pianeta, galassia con i DREADNOUGHT: il quintetto americano sembra un po’ la nota dissonante della serata, con un mix di sonorità progressive – e quando vediamo comparire in mano alla vivace Kelly Schilling il flauto traverso, è chiaro dove si va a parare – sporcate qua e là di avantgarde, due eteree e cristalline voci femminili pulite intervallate di tanto in tanto da passaggi in screaming, tappeti di tastiere e un sacco di controtempi.
La band tuttavia non sembra risentire del brusco (per così dire) cambio di registro e, complici dei suoni all’altezza, mette in scena il proprio show con l’abilità navigata di chi ha avuto diversi palchi sotto i propri piedi, con ciascuno dei musicisti impegnato nella propria parte ma al tempo stesso perfettamente in sincronia con gli altri.
Ammettiamo che, in cuor nostro, avremmo preferito di gran lunga vedere gli headliner affiancati dalla cupezza mistica di The Ruins Of Beverast (esclusiva solo delle date tedesche, olandesi e danesi), ma comunque le sperimentazioni tra passaggi di delicata dolcezza e incursioni aggressive – ancora una volta spesso incarnati dalla Schilling, in grado di passare da voce pulita a screaming, da chitarra a flauto traverso con una nonchalance da applausi – lasciano il proprio segno distintivo, soprattutto negli estratti dal recente “The Endless”.

Il concerto dei WAYFARER, invece, è il perfetto, nerissimo funerale del sogno americano che fu: i quattro, in look total black (e cappello da ranchero per il chitarrista Joe Strong-Truscelli), mettono in scena una vera e propria epopea sergioleonesca in cui ambizione e delusione si rincorrono in un ciclo fatto di violenza e rocce spietate, muri di suono aspri e corrosivi, passaggi di chitarra arpeggiati con quel suono deliziosamente western che ha contribuito a renderli unici.
Cugini di Panopticon, lontani parenti degli Agalloch, i Wayfarer esordiscono con un “let’s do some country shit” che parla già da solo di come siano diventati in grado di camminare da soli, con solo la propria ombra a tener loro compagnia: rispetto a quando li abbiamo visti lo scorso marzo possiamo notare una consolidata attitudine sicura e americanamente ruspante nello stare sul palco, una generale fluidità nell’interscambio di voci e di posizioni sul palco che parlano di moltissima strada macinata durante la promozione di “American Gothic”.
Shane McCarthy e soci, con un’ora e dieci a disposizione, riescono a dispiegare tutta la loro feroce potenza, arricchendo di una tonalità ancora più ‘fisica’ e muscolare tanto le cavalcate di “To Enter My House Justified” quanto l’andamento da ‘ballata scurissima al chiaro di luna’ di “The Thousands Tombs Of Western Promise” o la decadente “Reaper of The Oilfields”, che è davvero sempre bellissimo ascoltare dal vivo. C’è spazio anche per un paio di estratti da “A Romance With Violence” – i due atti di “Gallows Frontier” – giusto per ribadire che lo scenario in cui si muovono i Nostri è lo stesso da molto, molto tempo.
Non ci resta molto altro da fare che lasciarci irretire da questo incantesimo di nodi scorsoi, notti stellate e sete di nuove frontiere e, quando arriva “False Constellation”, a chiudere la scaletta con il suo andamento cadenzato e insieme malinconico, applaudire la formazione del Colorado, ancora una volta in grado di raccontare, da crooner anneriti da una spanna buona di lercio del deserto, di come l’America abbia seppellito se stessa sotto ‘sei piedi’ di terra bruciata e ambizione spietata travestita da progresso.

 

THYSIA

DREADNOUGHT

WAYFARER

 

 

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