Nel corso della loro carriera, abbiamo potuto vedere gli Anathema crescere e acquisire progressivamente pubblico e notorietà. Li abbiamo visti suonare in club minuscoli (chi scrive li ricorda al Binario Zero di Milano nel 1999), per passare a location sempre più grandi, con produzioni e budget mai faraonici, eppure di tutto rispetto.
Quella band, come ci ha raccontato lo stesso Daniel Cavanagh, non esiste più, eppure la sua eredità continua a vivere nei Weather Systems, che hanno iniziato pochi giorni fa il loro primo tour vero e proprio. Un ritorno alle origini, in un certo senso, che vede il chitarrista suonare in luoghi più raccolti, in cui il contatto con il pubblico è fondamentale.
Il nome, si sa, è importante, e il numero di persone che raggiungono il Legend di Milano è solo una frazione di quello che avremmo visto ad un concerto degli Anathema, eppure Danny e la sua band non si sono minimamente risparmiati e hanno regalato al pubblico una performance memorabile.
Ad aprire le danze, questa sera, troviamo gli HAUNT THE WOODS, formazione perfettamente in linea con il mood della serata, grazie alla loro proposta che unisce un malinconico alt rock, folk, progressive, con ispirazioni che abbracciano Pink Floyd, Porcupine Tree, Jeff Buckley e i Radiohead meno sperimentali.
Con una scaletta composta da una decina di pezzi, la band ha tempo a sufficienza per presentarsi al pubblico milanese, dando soprattutto risalto al loro più recente album in studio, “Ubiquity”, pubblicato nel 2023. Il quartetto appare coeso e capace di tenere il palco, alternando composizioni più energiche ed elettriche ad altre più compassate, in cui sono le sonorità acustiche a farla da padrone.
Il cantante e chitarrista Jonathan Staffor ringrazia il pubblico per aver deciso di trascorrere una parte della serata con loro, e in cambio restituisce una performance davvero sentita e convincente, ben supportato dal resto dei musicisti. Il pubblico, per quanto non numeroso, sembra apprezzare la proposta e tributa molti applausi alla band, che a sua volta invita i presenti a fare un salto al banchetto del merch, per accaparrarsi qualche articolo, o anche solo per un saluto.
Molto bello anche il momento finale del concerto, in cui tutta la band scende giù dal palco per cantare una canzone in mezzo al pubblico, senza nessun tipo di amplificazione, con delle belle armonie vocali e l’accompagnamento di una sola chitarra acustica. Una formazione da tenere d’occhio, senza dubbio.
Puntualissimi, alle 21.00, i WEATHER SYSTEMS salgono sul palco e decidono di giocare subito una carta vincente, aprendo con “Deep”, uno dei brani più amati degli Anathema, che ci riporta immediatamente a quella serata di ventisei anni fa, al Binario Zero, che era iniziata esattamente con la stessa canzone.
In questi anni tante cose sono cambiate, Danny ha passato momenti molto difficili, ma nel vederlo sul palco possiamo tirare un sospiro di sollievo: stasera non vediamo quel Danny umorale e scontroso che avevamo visto nelle sue ultime esibizioni con gli Anathema, ma ritroviamo finalmente un musicista che ama il suo pubblico, che vuole condividere la sua arte e che cerca in ogni modo una connessione. Daniel incita il pubblico, lo invita a cantare, lo dirige come farebbe un direttore d’orchestra, con ampi gesti delle braccia, e ci riempie di complimenti (“voi italiani siete i migliori a cantare, potremmo mettere un microfono in mezzo al pubblico, registrare un live a pubblicarlo subito!”).
Il concerto prosegue con alcuni estratti di “Ocean Without A Shore”, il primo disco della sua nuova band, e ci rendiamo conto di come Daniel stia cercando il più possibile di uscire dalla sua comfort zone: sul palco con lui ci sono il fedele Daniel Cardoso alla batteria, Soraia Silva alla seconda voce e il bassista André Marinho, ma il centro dello show resta il chitarrista, che si ritrova a dover gestire, anche con qualche difficoltà, chitarre, tastiere, pedaliere e ammennicoli vari, e soprattutto la voce. Il ruolo di cantante non gli calza a pennello come accadeva, invece, con suo fratello Vincent, ma riesce comunque a gestirlo con personalità e con risultati apprezzabili.
Certo, c’è ancora qualche ingranaggio che si inceppa, perché siamo davvero alle prime battute del tour, e la band sta iniziando ora a costruire quella sintonia che arriverà solo con il tempo. Di tanto in tanto i musicisti si guardano, cercano l’attacco giusto, e talvolta sbagliano, come nel caso di “Ghost In The Machine”, dove Danny si perde completamente ed è costretto a fermare la canzone con una risata di imbarazzo, per poi riproporla da capo. “Ho fatto un casino, scusate” – dice – “Però almeno adesso siete sicuri che si tratta di musica dal vivo!”. Non importa, sono piccolezze, una risata liberatoria e il concerto può riprendere.
Canzoni nuove e vecchie si susseguono e il pubblico, assieme a ottime composizioni come “Synaesthesia” e “Are You There? Part 2”, può gustarsi qualche classico del passato, come “Closer” – qui riproposta con un arrangiamento diverso e senza il vocoder – o la meravigliosa “A Simple Mistake”. “Non sapevo se sarei riuscito a cantare questa canzone, l’ha sempre cantata Vinnie” – ci confida Danny – “allora l’ho chiamato e lui mi ha detto di non preoccuparmi, di essere me stesso e di ricordarmi di respirare… e ha funzionato”.
Rispetto alla scaletta suonata nelle poche serate precedenti, riusciamo ad avere qualche sorpresa inaspettata, come l’esecuzione dell’emozionante “One Last Goodbye”, mentre sul finale viene confermata la scelta di suonare consecutivamente tutti e tre i capitoli di “Untouchable”, prima di congedarsi con “Flying”, cantata a squarciagola da tutti presenti.
La band si ritira, quindi, dietro le quinte, ma il pubblico sa che c’è ancora almeno un pezzo che non può mancare, quella “Fragile Dreams” che è diventata un po’ la canzone simbolo degli Anathema. Daniel, però, ha in serbo per noi un’altra sorpresa: nel corso della serata, infatti, aveva già raccontato come il suo bassista, André Marinho, fosse il cantante di una tribute band dei Metallica, e così, senza che fosse prevista in scaletta, la band decide di lanciarsi in una versione semi-improvvisata di “Wherever I May Roam”. Con un certo orgoglio, il chitarrista sottolinea più volte come non l’avessero nemmeno provata, e si tratta di un orgoglio ben riposto, perché l’esecuzione è davvero convincente e Marinho è un imitatore di Hetfield davvero pazzesco.
Arriva quindi davvero il momento di ascoltare “Fragile Dreams”, che chiude egregiamente un concerto durato due ore e venti e che sembra davvero essere un nuovo punto di partenza per un artista tanto talentuoso quanto tormentato.
Nella nostra recensione di “Ocean Without A Shore” ci auguravamo che Daniel riuscisse a trovare nuovamente un po’ di serenità e di redenzione grazie alla sua musica. Ovviamente sono cose troppo profonde per poterle giudicare da un concerto, ma da quello che abbiamo visto, ci sembra che la strada imboccata sia quella giusta.