19/03/2015 - WOLF THRONE SUPPORT FESTIVAL 2015 @ Glazart - Parigi (Francia)

Pubblicato il 11/05/2015 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto a cura di Pi2 Photography

Alla fine, il Wolf Throne Festival è andato in scena. Cambiando dicitura – il nome dell’evento è stato modificato in Wolf Throne Support Festival – riducendo il numero di giorni da quattro a due, stravolgendo la line-up a parte alcuni capisaldi, mutando di location e riducendo (di poco) il costo di un biglietto dai più già pagato quando, con la sgradevole puntualità di un rialzo delle tasse, le voci attorno a un annullamento della manifestazione sono diventate realtà il 16 gennaio scorso. A causa dell’anticipazione delle elezioni amministrative francesi nel weekend interessato dalla manifestazione, infatti, quello che doveva essere un mostruoso cenacolo di death e black metal composto da ventotto gruppi spalmati su quattro giorni, finiva per sfumare nella realtà e nelle fantasie di chi si era organizzato con largo anticipo per presenziare alla seconda edizione del festival francese. L’edificio in cui doveva tenersi la lunga kermesse concertistica, di proprietà della municipalità di Villepinte, diventava sede di seggio elettorale, spogliando della venue i poveri organizzatori. I quali, dopo aver informato con dovizia di particolari sull’accaduto e annunciando la possibilità, in quel momento apparentemente remota, di rinviare in altra data e contesto tutto quanto, si sono rimboccati le maniche per rendere comunque possibile, se non il festival nella sua connotazione originaria, un suo sostituto che valesse la pena del viaggio. Così è stato, perché trovata nel Glazart, importante locale da concerti nella periferia di Parigi, in posizione più centrale rispetto alla grigia Villepinte, una nuova casa, i ragazzi coinvolti nel progetto Wolf Throne sono riusciti a mettere insieme una due-giorni di altissimo profilo artistico. Il numero dei gruppi presenti è stato sì dimezzato, ma la maggior parte dei grossi calibri non è “saltata”, e ha trovato valida compagnia nell’aggiunta di alcune compagini inizialmente non preventivate (Acherontas, Moondark, Sadistic Intent, fra i nomi). La location si è rivelata all’altezza, la venue prescelta aveva sia i connotati del localino underground (dimensioni piuttosto ridotte, soffitto basso, arredi poco rifiniti), che quella del club professionale e adatto a manifestazioni di ampio respiro (ottimo impianto audio, bar ben fornito, ampio spazio esterno). L’affluenza, stimabile sulle due-trecento unità – ci scusiamo del difetto di precisione, su queste cose chi scrive non ha molto occhio – è stata a nostro avviso buona per un contesto di questo tipo, anche se il cambio di programma ha fatto probabilmente cambiare idea ad alcuni che avevano già acquistato il tagliando dell’evento. Ci permettiamo una piccola profusione di elogi per gli stand alimentari: al plurale perché al primo giorno ce n’era uno, il secondo un altro. Poca scelta? Macché, abbiamo mangiato il giovedì uno dei migliori panini con l’hamburger della nostra esistenza, mentre il secondo giorno il menù prevedeva invitanti sandwich vegetariani con ingredienti freschissimi. Vi sembrerà un dettaglio risibile, ma il poter mangiare qualcosa di decente predispone positivamente alle maratone concertistiche, e segnala anche la cura per il “contorno” posta dagli organizzatori. Un’attenzione che si è riversata anche sulla zona riservata al merchandise, foriera dei soliti attentati al portafoglio. Rimarchiamo, da questo punto di vista, i prezzi piuttosto popolari, soprattutto per quanto riguarda i prodotti venduti direttamente dalle band. Ciò ha comportato un giusto saccheggio delle scorte di molti gruppi, premiati per prestazioni oscillanti tra il buono e il magnifico. Il comune denominatore di un festival composto da sole death metal e black metal band underground, con un netto sbilanciamento per il primo genere, è stato proprio l’eccellente livello delle esibizioni. Nessuno si è risparmiato, tutti hanno buttato anima e sangue sul palco, uscendone ripagati da un supporto accesissimo da parte di un pubblico competente e accanito. Andiamo quindi ad esplorare nel dettaglio quanto accaduto in questa zona remota e poco glamour della Ville Lumière…

Wolf Throne Festival - flyer definitivo - 2015
SHEOL
Una lunga gestazione da partorienti, per motivi ignoti, ci tiene fuori dal locale un buon quarto d’ora dal momento del nostro arrivo nell’anonima e squallida zona tra due cavalcavia dove ha sede il Glazart: non c’è coda davanti alla cassa, non c’è esattamente una ressa folle per entrare – una ventina di persone come noi abbastanza incredule del transennamento che gli sbarra la strada – ma il gigantesco buttafuori, con cortese fermezza, presidia l’entrata. E non ci lascia passare. L’impedimento ci priva di quasi metà set degli Sheol, seconda band di giornata. Per i Malthusian, date le possibili combinazioni aeree, non si poteva fare nulla, così sono i deathster inglesi a “battezzare” il nostro Wolf-Throne. La prima impressione, per qualcuno, è quella che conta: il sottoscritto non la pensa proprio così, ma almeno per il Glazart e il festival che qui vi ha sede si parte indubbiamente col piede giusto. Il soffitto basso emana sentiti e genuini presagi di vero underground, il palco ha dimensioni più che accettabili, non è altissimo ma vista la relativa esiguità delle presenze la visuale risulterà essere sempre apprezzabile. Per gli Sheol, autori finora di un demo, un EP e uno split con i For, e recentemente autori di un cambio di nome non proprio ideale per chi li deve cercare sui motori di ricerca (trattasi del nome originario del gruppo scritto in ebraico, fate voi…), è il momento di mostrare muscoli e poteri occulti. I Nostri ci sembrano fuoriuscire da qualche cloaca infetta dal centro della Terra e si fanno portacolori di quel death tutto ripugnanza ed eccessi che nella cosmopolita capitale del Regno Unito sembra aver trovato ecosistema ideale per diffondersi. Sull’onda dei vari Lvcifyre, Grave Miasma, Cruciamentum, gli Sheol inondano di olezzi gorgoglianti e percolato tossico il suolo parigino. Un cantato inchiodato alle tonalità basse, uno strato di chitarre insidioso come sabbie mobili e una batteria vorticosa e spezzacollo adombrano ogni sentore di melodia e orecchiabilità: i quattro picchiano e spingono al caos indistinto, puntando ben poco sul songwriting ma piuttosto sul marasma inconsulto. Sono da rivedere con un maggiore minutaggio disponibile, per il poco che abbiamo sentito non ci sono affatto dispiaciuti, anche se qualche sforzo per connotare meglio i propri confini territoriali in un genere al momento assai inflazionato va sicuramente messo in atto.

MOONDARK
A quanto pare non si è trattata di una reunion estemporanea quella dei Moondark, c’è davvero la voglia di proseguire un discorso artistico troncato sul nascere nel 1993 e portatore di un unico, mitizzato demo, intitolato “The Shadowpath” solo nel 2007 quando venne ristampato dalla No Colours Records (prima era semplicemente chiamato “Demo #1”). Nel 2014 c’è stata la seconda (!!!) esibizione live della loro storia, nel sancta-sanctorum del death metal underground che era diventato il defunto Kill-Town Deathfest. Al Wolf Throne è di nuovo tempo di sfoderare il culto e renderlo visibile a gente che nei primi Anni ’90 frequentava le scuole elementari, o al più le medie. Con la moda del death underground ancora lontana dallo sgonfiarsi – speriamo di non portare sfiga in tal senso – ben vengano ritorni di gruppi poco fortunati e inghiottiti dall’oblio come gli svedesi. I quali, tra i molti ensemble estremi rimessisi all’opera negli anni 2000, sono tra quelli meglio conservati e immuni per ora da evidenti segnali di declino: come appurato proprio a settembre, quando risultarono i più tonici fra i vari Detest, Centinex, God Macabre, in poche parole la vecchia guardia del death nordico allora presente all’Ungdomshuset. A confronto della già ottima comparsata di qualche mese fa, i cinque hanno acquisito un po’ di naturalezza nelle movenze, e ora trasmettono un certo trasporto e animosità nel perpetrare un death metal cadenzato e rotolante sugli ascoltatori come un masso lanciato per il declivio di un monte. Una divisa di scena comprendente per tutti i cinque una sobria camicia nera, abbastanza in contraddizione col carattere fetidamente old-school della musica, che fa apparire i musicisti molto più eleganti e leccati della media, non può nascondere la genuinità degli intenti e la ferocia inattaccabile di piccole perle di death metal doomeggiante quali sono “Inside The Crypts” e “Dimension Of Darkness”. Il singer Alexander Högbom passa quasi tutte le pause a farsi la doccia con le bottigliette d’acqua, inzuppandosi completamente la camicia: sentirà caldo, anche se le temperature all’interno del Glazart sono gradevoli ma nient’affatto torride. Il pubblico è di quelli navigati, e quindi non stupisce la reazione entusiastica per canzoni che in festival anche solo relativamente più mainstream verrebbero completamente ignorate. Sui ritmi più soffocanti escono i Moondark migliori, quelli che allo swedish death classico annettono sentori di catacombe maleodoranti, ma anche quando c’è da caricare a testa bassa i Nostri si dimostrano tutto fuorché un residuato del passato anacronistico e fuori contesto. Anche stavolta tirano fuori un concerto di spessore, e adesso aspettiamo di vedere ristampata sotto una degna veste il primo demo, oggi suonato per intero. Anche per le nuove generazioni, sarà una pubblicazione da godere appieno.

OSCULUM INFAME
Che dite, li mettiamo nella categoria dei “vorrei ma non posso” gli Osculum Infame? I francesi sono un manipolo di musicisti a suo modo abbastanza ambizioso, desideroso di ritagliarsi uno spazio di manovra tutto suo all’interno della scena black metal, congegnando atmosfere elaborate all’interno degli ampi e tutt’altro che netti confini dell’extreme metal. Il problema, relativo, è la mancanza di un talento adeguato a supportare tali velleità. O perlomeno, questa capacità descrittiva/evocativa si palesa a macchia di leopardo, e ha il torto di rendersi evidente prevalentemente nei primi brani, per poi andare a scemare. Nel primo spicchio di concerto i sentieri ritmici e chitarristici comprendono parti oblique e non facili da decifrarsi, dilatazioni e infusioni in ambigue ambientazioni macabre che fanno presagire una performance di soddisfacenti contenuti artistici. Questa misurata spinta sperimentale, come detto, va poi a calare, e il gruppo si rifugia nei soliti artifizi delle compagini trueblack metal aventi una forte motivazione e dedizione per la materia, ma poche idee da mettere in campo. Le canzoni diventano più scarne, essenziali, ascoltabili senza sbadigliare ma anche prive di veri significati e ragion d’essere. La tenuta del palco è discreta, la voglia di far male tanta, e un po’ l’appartenenza di lunga data al sottobosco transalpino, un po’ i gusti tradizionalisti di chi sta a bordo palco, la performance si snoda comunque in maniera dignitosa. Fan veri di questi esperti musicanti – sono in giro dal ’93 e hanno all’attivo un solo full-length, “Dor-Nu-Fauglith” – ve ne sono, e per costoro il concerto degli Osculum Infame diventa un primo highlight della giornata, mentre per tutti gli altri si tratta soltanto di un piacevole intermezzo prima dei grossi calibri.

HELL MILITIA
Gli Hell Militia chiudono la parentesi dedicata alle band autoctone, nel segno dell’ignoranza e della celebrazione dei tratti essenziali e primordiali del metal estremo. Sono una di quelle formazioni che magari artisticamente non hanno chissà quali talenti da mettere in campo, ma hanno un’attitudine becera e selvaggia in grado di compensare, almeno on-stage, l’assenza di grandi pezzi da proporre. I parigini, accasatisi su Season Of Mist nel recente passato con il terzo album “Jacob’s Ladder”, affrontano l’impegno alla stregua di una battaglia per la sopravvivenza, da combattersi tramite velenose sciabolate old-school che guardano sia ai fasti norvegesi dei primi Anni ’90 (primi Mayhem su tutti), sia ai primi due album dei Samael, con un tocco thrash alla Sodom. Tali paragoni non sono da prendersi alla lettera, perché i Nostri sfornano brani di grana grossa, dove a uno studiato e ben accolto spirito anthemico si contrappongono riff non proprio memorabili. Se in principio rimaniamo un po’ perplessi, con l’entrata nel vivo dell’esibizione iniziamo a comprendere gli entusiasmi degli spettatori locali, impegnati a darsele di santa ragione a bordo palco. Nonostante l’alone di grettezza, gli Hell Milita hanno un minimo di cura per cambi di tempo, arrangiamenti e spunti solistici, oltre ad annoverare tra le loro fila dei discreti animali da palco. Spicca il singer RSDX, globetrotter del metal estremo con trascorsi in Bethlehem, Funeral Winds, Dark Remains, che assomma a uno screaming acidissimo uno stage acting invasato e colmo d’odio, ben coadiuvato da compagni d’arme tarantolati, completamente posseduti dalla frenesia della propria musica. Questi cinque, nel modo di porsi, paiono quasi un aggiornamento dei Venom e possiamo annoverarli tranquillamente tra i trionfatori della manifestazione per quanto riguarda l’entusiasmo generato. Per le prestazioni da tramandare ai posteri, invece, bisogna per forza di cose chiedere ad altri.

Hell Militia - Wolf Throne Support Festival - 2015

Hell Militia 2 - Wolf Throne Support Festival - 2015

CENTURIAN
I Centurian sono la compagine meno “da Wolf Throne” della due giorni. Gli olandesi non rappresentano la tipica creatura underground fosca, ributtante e melmosa, oppure difficile, esoterica ed eccessiva, che piace tanto in ambienti simili. I quattro, al contrario, si dedicano da sempre a un death metal furibondo di matrice americana, sporcato da una punta di black metal, tutto sommato abbastanza ortodosso. Frequentano assiduamente i palcoscenici internazionali e, pur nel loro ruolo di outsider, hanno inanellato nel corso della lunga carriera (iniziata nel 1997, comprendente anche una parentesi a nome Nox) una rosa di esperienze live assai ponderosa. Con il sacro fuoco dentro e una scioltezza dettata dall’abitudine e dall’innato killing instinct, ci mettono una manciata di secondi a far impazzire i presenti. Tutti i musicisti coinvolti sono delle discrete belve nell’atteggiamento ed espongono concetti death metal concisi e pregnanti, dettati con il clamore e l’esagitazione di chi coltiva da sempre dentro se stesso questa musica. Gli strumentisti in campo risulteranno tra i migliori tecnicamente tra quelli visti su questo palcoscenico. I Centurian non hanno mai brillato per inventiva in carriera, ma gli si è sempre riconosciuta un’adesione convinta al death metal più genuino: oggi è una piccola consacrazione, uno scatto d’orgoglio per ribadire l’amore per questa musica e donare tutto se stessi alla causa. E i fan, di fronte a cotanta grinta e perizia, gli riconoscono sacrosanti elogi. I suoni sono spaziali: se già con le prime esibizioni ci eravamo accorti della bontà di quanto usciva dalle casse, con gli orange siamo spazzati via, brutalizzati da chitarre corpose e arrembanti e una batteria tetragona e agile insieme. Non un elemento è fuori posto: il growl tra vecchia scuola e modernità di Niels Adams, la chitarra cromata di Rob Oorthuis, il basso spumeggiante di Federico Benini, che disegna linee alla Di Giorgio, le scorrerie in doppia cassa di Seth Van de Loo. Solismi cristallini, protesi a volte agli impulsi schizofrenici slayeriani, altre a trame più melodiche e dal retrogusto di metal classico, completano un quadro entusiasmante. Quello che non si può descrivere con abbastanza precisione è l’adrenalina infusa in chiunque da questi ragazzi: al gorgoglio piombato degli Sheol, alle manovre screanzate degli Hell Militia e a certe ampollosità degli Osculum Infame, i Nostri contrappongono una rabbia smodata e impulsiva che smuove chiunque all’headbanging, se è un tipo tranquillo, o a una convulsa baraonda, se preferisce viverla sballottato di qua e di là per la sala. Pezzi killer, alternati con maestria tra staffilate a duecento all’ora e groove martellanti, non fanno respirare per tutti i tre quarti d’ora disponibili. Arriviamo in fondo interdetti e quasi sbigottiti: quando certe cose non te le aspetti, è sempre più bello.

Centurian - Wolf Throne Support Festival - 2015

Centurian 2 - Wolf Throne Support Festival - 2015

INTERMENT
Vecchie pellacce. Mai darle per morte, mai sottovalutarle. Mai credere che abbiano già dato tutto e siano in giro solo per rinfocolare nostalgie varie ed eventuali. Gli Interment sono di quei nomi minori del death europeo che, a dei San Tommaso di poco conto come chi scrive, ingenerano un misto di diffidenza e perplessità quando la conoscenza della materia non è di prim’ordine. Si confessa serenamente che non ci si aspettava chissà cosa, vuoi appunto per una grave ignoranza in merito, vuoi anche per meri gusti personali. Il piacere di essere smentiti è quindi grande quando questi marcioni, vestiti come sopravvissuti in un film di zombie, trasandati e quasi cadenti nelle apparenze, si mettono a pestare come ossessi e a dare forma a un death metal quadrato ed essenziale di inebriante forza evocativa. I pensieri corrono a quando questa musica non era la norma, rappresentava una destabilizzante novità sonora e concettuale, inondava di sozzeria e rumore le menti degli adolescenti. Un fascino intatto, che vive tuttora nel riffing scurrile e a suo modo personale di Johan Jansson e nei fiotti di sangue causati dal suo growl intelligibile, nella sfrontatezza di una batteria limitata nel numero di opzioni disponibili e irreparabile nei danni provocati. Musica da scorticamento del collo, e difatti si contano sulle dita di un mano le teste ferme durante la performance degli svedesi. Il repertorio dei nordici comporta poche possibilità di scelta, una manna per chi ha consumato a forza di ascolti i vecchi demo degli Anni ’90 e l’unico full-length “Into The Crypts Of Blasphemy”. Uno potrebbe credere che con poche armi a disposizione l’impatto sia deflagrante e il resto un po’ manieristico e ripetitivo: nossignori, gli Interment sapevano, e sanno, scrivere canzoni di senso compiuto, e anche se non si è fanatici di un certo tipo di suoni basta poco per farsi coinvolgere e godere del tempo in balia di questi ragazzacci non di primo pelo. Tre quarti d’ora energici, con una bella atmosfera da stadio in subbuglio a fargli da contorno. Pollice alto anche per gli Interment.

SADISTIC INTENT
E poi arrivano i Sadistic Intent, ed il senso ultimo di una manifestazione come il Wolf-Throne assume contorni inconfondibili e quanto mai esaustivi sul perché l’extreme metaller sfegatato non possa non vivere per giornate come queste. Sadistic Intent, un nome che è quasi onomatopea di un massacro pantagruelico, una sordida certezza incastonata nell’underground metal ottantiano, giunta fino a noi in anni di attività sparuta, frammentaria, contraddistinta da EP, split, raccolte, mai da un full-length. Eppure, sul campo e coi passaparola, questi americani di sangue latinos hanno fagocitato attenzioni smisurate (relativamente all’underground estremo) per la quantità del materiale rilasciato. Anche a chi come il sottoscritto non ha grande familiarità col quartetto – visti due volte come supporting-band di Jeff Becera sotto l’egida dei Possessed – non può che rimanere ammaliato da una così spontanea e riuscita sintesi dei dogmi cardine del death metal. Una musica vissuta non col cipiglio degli inquisitori come tanto si usa oggigiorno, piuttosto con l’entusiasmo selvaggio dei prime mover ottantiani, tipo i già citati Possessed, i Sepultura, i primi Slayer, Morbid Angel e Death quando erano ragazzini. E’ qui la festa, gente, tra bracciali borchiati che chissà come hanno fatto a giustificare in dogana senza farsi arrestare, facce delinquenziali, gioia smodata per essere qui, in Francia, tra simili con le stesse passioni e la stessa visione del mondo. Non pensiamo di esagerare nell’affermare che i Nostri, non presenti nel programma originario del Wolf-Throne e tra gli ultimi ad essere confermati nella line-up definitiva, siano quelli che abbiano scatenato i maggiori consensi tra i death metaller accorsi al Glazart. La calca aumenta rispetto a chi li ha preceduti, gli occhi di molti brillano e i muscoli si tendono per buttarsi in un mosh senza domani. Questo arriva, sottoforma di una baraonda convulsa, quanto sono furibonde ma tecnicamente ben controllate le rasoiate del combo, preparato ed affiatato come una gang all’assalto di un blindato portavalori. Oltre a tutti gli elementi che in questi casi fanno colore – la vestizione aderente in toto allo stereotipo del metallaro lercio e disagiato, le espressioni facciali deformate in ghigni buffissimi, le dimensioni extralarge di uno dei due chitarristi, gli sproloqui per presentare i brani – c’è una sostanza artistica inattaccabile: pattern di batteria degni del miglior Igor Cavalera, chitarrismo incrociante le frange più assassine del death floridiano e dell’extreme thrash Anni ’80, vocals sguaiate trucemente estasianti come quelle degli Slaughter di “Strappado”. La gestione di tempi, pause, stacchi e ripartenze è un’antologia del metal estremo più vero, genuino e suonato con cognizione di causa. Perché tanti pensano che per ricreare certe sonorità si debba solo picchiare e urlare, e invece bisogna saper suonare, e pure bene. Tra assoli hannemaniani, chiamate al martirio, una vitalità frenetica che manco dei ragazzini infoiati di sedici anni riescono a manifestare, il concerto dei Sadistic Intent finisce dritto dritto nella nostra galleria dei magic moment stagionali. Old school death metal forever!

Sadistic Intent - Wolf Throne Support Festival - 2015

Sadistic Intent 2 - Wolf Throne Support Festival - 2015

DEMILICH
Inutile girarci attorno, il clou del primo giorno, almeno a livello di importanza ed unicità del momento, è la riapparizione dei Demilich. I finlandesi escono nuovamente dal letargo, oracoli di un death metal rimasto una strada interrotta, un lascito per i posteri a cui nessuno ha osato dare un seguito. Altra musica della morte colta, disinibita, menefreghista degli steccati imposti dalla tradizione, incurante di critiche di violazione dei dogmi di una presunta fede inviolabile, scritti secondo alcuni nella pietra e inoppugnabili, hanno attecchito nell’immaginario collettivo e hanno plasmato intere generazioni di musicisti. Atheist, Pestilence, Carcass, Death, Gorguts hanno lasciato il testimone, in maniera più o meno diretta, in mano a qualcun altro. I finlandesi, autori di un unico full-length, “Nespithe”, diventato soltanto a molti anni di distanza un oggetto di culto venerato da stuoli di extreme metaller, sono la mosca bianca più bianca di tutte, gli esclusi, gli emarginati di un movimento che prima o poi ha richiamato alla gloria chi non aveva raccolto quanto avrebbe meritato nei primi Anni ’90. E questo carattere di fuorilegge incompresi, che li fa adesso amare da tanti ma non riscuote apprezzamento convinto anche dal death metaller puro e dal piglio “true”, fa sì che rispetto all’incendiaria prestazione dei Sadistic Intent, gruppo sicuramente più istintivo e in linea con le idee della maggior parte dei presenti, il Glazart annoveri molte presenze in meno. Non gioca a favore dei quattro, nel confronto con gli immediati predecessori, nemmeno l’atteggiamento: tanto gli statunitensi di ascendenza ispanica quasi fumavano dagli occhi per i bollori interiori, e si divincolavano sul palco in preda a una forma acuta di Ballo di San Vito, quanto i nordici sembrano appena fuoriusciti da una rilassante sauna o da una pennichella pomeridiana. Il cantante/chitarrista Antti Boman è quasi inudibile quando parla nel microfono tra un pezzo e l’altro, potrebbe addormentarsi da un momento all’altro vista la flemma che lo accompagna… Chi gli sta a fianco è sulla medesima lunghezza d’onda e anche durante l’esecuzione degli arzigogolati cavalli di battaglia la partecipazione non è esattamente da invasati. Dovessimo giudicare i Demilich da questi particolari, si parlerebbe di bocciatura secca. Ma questi sono dettagli, facezie, per chi era qui a suggere prima di tutto il succo musicale. E da questo punto di vista, beh, c’è proprio poco da lamentarsi: i quattro sono assolutamente inumani quanto a precisione, pathos, spericolatezza. A livello strumentale non si perde nulla di nulla dei labirinti suppurati e contorti di “Nespithe”, gli andamenti storti e stranianti provocano uguale sbigottimento, apprensione, costernazione delle versioni in studio. Capito l’andazzo, ci viene quasi da sfidare i quattro e dirgli: “Vediamo se ce la fate ad andare fino in fondo senza errori! Vediamo se riuscite a non rimaneggiare nulla!”. Fregati. Se escludiamo la voce, “normalizzata” rispetto al gorgoglio alieno del disco – seppure ottima se confrontata a un growl canonico – non c’è un singolo passaggio che suoni prosaico e semplificato. E allora la freddezza iniziale di buona parte dei presenti può sciogliersi in un headbanging da grandi occasioni e in atteggiamenti di vibrante approvazione. Ne esce quindi una performance eccellente, che se fosse stata sostenuta anche da un minimo di partecipazione emotiva da parte degli strumentisti sarebbe diventata addirittura leggendaria.

SKELETHAL
Confinati sul fondo di una line-up annoverante, già dal secondo gruppo, dei veri e propri giganti dell’attuale scena underground estrema, i giovani death metaller a nome Skelethal potrebbero fungere da vaso di coccio in mezzo a numerosi vasi di ferro. Non gioverebbe nemmeno l’orario di inizio, con i ragazzi sul palco pochi minuti dopo l’apertura delle porte. I quattro però sono già abbastanza rodati, suonano live piuttosto spesso e si sono già permessi il piccolo lusso di un tour statunitense in compagnia dei Rude. E proprio questo fatto dovrebbe far saltare la pulce nell’orecchio, e farci capire che con i musicisti di Lille non si scherza. La sala va riempiendosi quando le prime note risuonano nel Glazart, facendoci scorgere un decoroso colpo d’occhio, dovuto in parte alla conoscenza dei primi due EP editi nel 2014, “Deathmanicvs Revelation” e “Interstellar Knowledge Of  The Purple Entity”, in parte al ben noto sciovinismo francese. Del terzetto di act transalpini visti all’opera nella due giorni, gli Skelethal sono i vincitori morali; sarà il modo di stare sul palco poco costruito e semplicemente figlio dell’entusiasmo giovanile, un vestiario squisitamente ottantiano a base di jeans strappati e toppe ovunque, soprattutto la famelica indole a cavallo tra i Death dei primi due album e lo swedish death più genuino, questi giovanotti se la cavano egregiamente. Provocando con pochi sforzi i primi scapocciamenti in un’audience che ha già dato molto il giorno prima da questo punto di vista. Il growl schuldineriano del frontman suona la carica e mette la ciliegina a un guitar-work sprezzante, profumato di quel fragrante mix di sudore, oscenità, orrori e rabbia che permeava il death metal venticinque anni orsono. I brani sono sintetici e ben strutturati, con un’intelligente alternanza di frammenti incalzanti e tempi morti ad effetto. Brillante la chitarra solista, solida e scattante la sezione ritmica; nella mezz’ora a disposizione non c’è davvero motivo di annoiarsi. Ci sarà ancora da lavorare su varietà e personalità, perché alla lunga le composizioni tendono un po’ ad assomigliarsi e non tutti i riff hanno lo stesso peso specifico, però nell’affollato panorama old-school europeo questi strumentisti dimostrano di poterci stare con piena dignità.

MAVETH
Quando la malvagità diventa un flusso ingovernabile di insostenibili nefandezze, un eccesso ributtante non arginabile né comprensibile, concepibile solo da chi ha una mente totalmente intorbidita dal peccato e dalla devianza, vuol dire che sono scesi in campo i Maveth. “Coils of The Black Earth”, unico album finora pubblicato, ha tracciato una linea, un confine, su cosa voglia dire comporre musica omicida e mefitica. Un death metal più nero del black metal stesso, a cui si sposa per la smaccata indole depravata, che al Glazart viene celebrato degnamente e senza alcuna riduzione di bestialità. Una bestialità innaturale, connaturata e conclamata nelle stesse fattezze dei musicisti, individui per nulla rassicuranti e con l’espressione malmostosa di chi vuole sbarazzarsi di ogni essere vivente, ridurre in poltiglia qualsiasi tipo di opposizione. Un bulldozer al titanio, con propaggini aguzze e storpie, prende la rincorsa e si abbatte sui nostri poveri corpi: l’impenetrabilità cementizia delle ritmiche chitarristiche non va a discapito di velocità di crociera tendenzialmente elevate, con una batteria implacabile nell’indirizzare i suoi colpi su pattern non dinamicissimi, ma rassicuranti come tamburi scandenti sacrifici umani di massa. Ammirando tutto questo odio, questa libagione di nero marciume, viene da pensare che i Maveth siano oggi quello che rappresentavano i Deicide a inizio Anni ’90: con Glenn Benton e i fratelli Hoffman era la blasfemia a urtare le coscienze, qua è il contatto repellente con esseri incestuosi venuti da chissà dove a mandare al patibolo. Non ci sono dettagli scenici in risalto, nessuno dei quattro musicisti spicca per prestazione individuale, non ci sono nemmeno elementi di spiccata originalità a denotare la musica dei finnici: è l’insieme che è mortifero, e il growl ribassato e seviziante del tatuatissimo Christbutcher è solo l’ultimo anello di una catena resistente a qualsiasi tentativo di rottura. Non uno dissente di fronte al chitarrismo del corpulento Mikko Karvinen, uno dei figuri più minacciosi visti nella due giorni (anche se la fede al dito smorza gli entusiasmi di chi lo vede come un gigante cattivo in missione di sterminio), non uno si mostra annoiato da canzoni che arrivano a durate lunghette (si passano facilmente i cinque minuti), non uno rimane insensibile a tanto defenestrante fascino. E’ ancora presto, ma ci stiamo già pigmentando di compiaciuto terrore.

GRAVE MIASMA
Cosa sono i Grave Miasma, se non un immondo, raccapricciante, rettile comparso dalle rovine di un passato remoto per ricordarci il destino apocalittico a cui prima o poi andremo incontro? Urtano e mettono a disagio, i quattro londinesi, sono dei pazzi psicopatici senza remore né misericordia. La loro idea di death metal è sensazionalistica, esagitata, tesa a smuovere fanghiglia, cadaveri, sporcizia, in un terremoto strumentale disordinato e sfrontato. Faccia lercia, un face-painting rozzo che potrebbe essere semplicemente la melma con cui amano dilettarsi dal lato sonoro, fumo ad invadere tutto il palco, tanto da farci intravedere qualcosa di chi sta suonando solo dopo alcuni minuti dall’inizio del concerto: così si presenta la band ai nostri occhi. Come deviati assassini di un albo di Crossed, i death metaller inglesi sono attratti dal lato più sadico e scriteriato della materia estrema, e alle incendiarie, gorgoglianti, entità mortifere sotto forma di canzoni promulgate in studio, aggiungono la propensione al caos più becero, all’orrore smisurato. Non quello da intuire, sinistro ma impalpabile, spropositato ma nascosto, no: parliamo di immagini cruente, riprovevoli, indotte da un assalto all’arma bianca che assomma ritmiche curate nelle dinamiche e vessate da un missaggio in sede live studiato per far impazzire chi assiste allo show. Anche a confronto di altri pesi massimi del death metal bestiale messisi in mostra nella due giorni, i Grave Miasma si rendono protagonisti di un’opera di sobillazione delle forze oscure portata all’eccesso, a uno sciame di tumulti pressoché impossibile da definire. Tutti e quattro sono tarantolati, si muovono in preda al delirio di chi sta compiendo una missione e non ha alcuna intenzione di fermarsi. L’interazione tra le due chitarre è inesistente: nel senso che non collaborano, si scontrano, si avvinghiano l’una all’altra e lottano per prevalere. E’ come se si incornassero a vicenda, generando rumori strazianti, e ti aspetteresti di vedere le corde trasformarsi in code di drago e stritolare i convenuti. Pensate all’impeto della grind band più isterica che conoscete, imbottitela di Incantation e Morbid Angel, incrostatela di war metal, e forse non basterà a rendere l’idea di cosa possano combinare gli autori di “Odori Sepulcrorum”: i Nostri azzerano le reazioni, portando a sostenere il supplizio senza muovere un muscolo, inchiodati alla propria posizione da un odio e una follia impossibili da arginare. Misericordiose parentesi ipnotiche spezzano ogni tanto il maelstrom imperioso in cui siamo immersi, ma è uno di quei casi in cui i relativi “alleggerimenti” – termine da prendere con le pinze per i Grave Miasma – servono soltanto a rincarare la dose delle tirate più schiaccianti. Tre quarti d’ora che valgono giorni, i Grave Miasma dietro di sé lasciano solo vulcani in eruzione su una terra tornata allo stadio primitivo.

Grave Miasma - Wolf Throne Support Festival - 2015

Grave Miasma 2 - Wolf Throne Support Festival - 2015

LVCIFYRE
I Lvcifyre, fedeli al motto “poche ma buone” (inteso come le date live di cui si rendono protagonisti), avevano preparato uno show speciale per l’happening francese. Oltre ai membri in pianta stabile della formazione, avrebbe dovuto essere della partita anche Mark Of The Devil, singer polacco in forza ai blackster Cultes Des Ghoules che compare in molte tracce dell’ultimo “Sun Eater”. Questo musicista, come si può ben immaginare, non è quasi mai presente ai live del gruppo, e l’idea di rappresentare l’apprezzato disco uscito nel 2014 nella sua interezza, con entrambe le voci lì protagoniste insieme sullo stesso palco, avrebbe rappresentato un’occasione ghiottissima. Sfiga vuole che, subito in apertura, il microfono dell’ospite, in tenuta monacale, non ne voglia sapere di funzionare adeguatamente. Passa un po’ di tempo e finalmente qualche urlo esce dalle casse, ma parlare di grandi miglioramenti è improprio: la voce suona completamente slegata dal contesto, un latrato fuori fase rispetto ai geyser di lava ustionante in quel momento rappresentati dai musicisti. La cosa strana è che tutti gli altri strumenti si sentono perfettamente, e se si escludono le linee vocali del secondo cantante, i Lvcifyre si stanno rendendo protagonisti di un concerto da urlo. La situazione non migliora e allora lo sconsolato Mark Of The Devil esce mestamente di scena, mentre il concerto prosegue senza di lui. Assumendo i connotati di un olocausto abominevole, perché con una luce rossastra ad esacerbare la parvenza perversa e deviata dei musicisti, essi pervengono a un’interpretazione del proprio materiale posseduta da una lucida volontà omicida. Uscendo di scena l’unico elemento poco integrato alle spolverate di napalm scolpite dalle chitarre, il quartetto guadagna esponenzialmente in impatto, ed esce vincente rispetto all’immediata concorrenza precedente grazie a un dinamismo thrash molto palese sulle assi del Glazart. Muscoli e cervello, atmosfera e macelleria trovano nei Lvcifyre il perfetto punto d’incontro, l’esaltazione reciproca, l’ideale matrimonio d’intenti. Citare un musicista in grado di spiccare sugli altri è un esercizio piuttosto futile, tutti quanti interpretano con feeling e precisione impeccabili le loro parti, rendendo questa rilettura completa di “Sun Eater” fedele e avvincente. Non sarà andata esattamente come se la immaginavano e l’abbandono del guest vocalist è sicuramente un fatto che ha “normalizzato” il concerto, ma oggi i deathster albionici hanno dato prova di essere tra le realtà death/black metal più intransigenti e talentuose della scena.

Lvcifyre - Wolf Throne Support Festival - 2015

Lvcifyre 2 - Wolf Throne Support Festival - 2015

CULT OF FIRE
Se i Demilich sono stati il clou del primo giorno, quello del secondo, e se guardiamo all’attesa generale, di tutta la manifestazione, è rappresentato dalla calata dei misteriosi Cult Of Fire. Il concept richiamante un blasfemo pantheon di crudeli dei indiani, i testi in sanscrito, il feeling oltraggiosamente sacerdotale del loro black metal dai toni classici ma contaminato da melodie pregiatissime di stampo orientale, l’osceno barocco sepolcrale dell’allestimento del palco: tutto concorre a far salire la fibrillazione tra i presenti. La scenografia, pur dovendo fare i conti con un palco nient’affatto sterminato, comprende due tavoli pieni zeppi di ogni ben di Satana, fra candelabri, lumini, (laboriosissima e rischiosa l’operazione di accensione, non osiamo pensare cosa sarebbe accaduto se una di queste fiamme libere fosse arrivata su qualche filo elettrico in giro…), teschi e pelli d’animale, cianfrusaglie assortite a tema macabro. Quando i musicisti si presentano, è tutto un alzarsi di macchine fotografiche e flash, chiunque vuole immortalare la vistosissima vestizione dei quattro: un palandrone papale dai colori sgargianti, con una simbologia sconosciuta al sottoscritto sulla parte anteriore di questo vestaglione. Il volto coperto, copricapo altissimi e puntuti (paiono quelli del Ku Klux Klan!), guanti neri di vinile alle mani, completano il fascinoso quadretto. Purtroppo per noi, il lato sonoro dell’esibizione si distingue come l’unica, vera, parziale caduta di questo Wolf Throne. Sarà il doversi affidare a una base per il basso, sarà che i Cult Of Fire hanno suoni non proprio convenzionali, sarà che i blackster cechi arrivano on-stage dopo quattro gruppi uno più massacrante dell’altro, però per buona metà del set si sente poco e male. I volumi sono più bassi delle esibizioni precedenti, le due chitarre confuse e ridotte al lumicino nel potenziale espressivo; si stagliano nel marasma le vocals del leader, invero non perfette, e la batteria. La risultanza degli sforzi della band diventa quindi un black metal caotico e amorfo, dove a stento si percepisce l’aura magica e maledetta dell’ultimo “मृत्युकातापसीअनुध्यान”, su cui la scaletta è incentrata. Quando le cose migliorano, saranno passati venti minuti, allora si comincia a godere sul serio, e a farsi trasportare da arie demoniache dall’immondo carico di liturgica blasfemia. E mentre le pose scultoree del singer, che canta quasi immobile con le braccia larghe, come un Papa in vena di benedizioni, calamitano gli sguardi, le candele ardono rinfocolando sentori di peccati atroci e finalmente ci liberiamo delle noie sonore aspirando a dialoghi ravvicinati con la squartatrice Dea Kalì, i Cult Of Fire se ne vanno. Vero, si sente qualche borbottio da una chitarra, ma non pare cosa così grave. Invece i Nostri mozzano il set di un quarto d’ora abbondante, probabilmente infastiditi dalle difficoltà tecniche subite, e non si fanno nemmeno vedere al banco del merchandise, dove tutti li attendevano per accaparrarsi il desiderato feticcio. A conti fatti, l’unico down della nostra “missione” parigina.

Cult Of Fire - Wolf Throne Support Festival - 2015

Cult Of Fire 2 - Wolf Throne Support Festival - 2015

ACHERONTAS
Quel filo di delusione albergante nel Glazart a seguito della performance monca dei Cult Of Fire, viene spazzato via, in un turbine di delizie odoranti fragranze di incenso e prelibate spezie, dai greci Acherontas. Gli ellenici con “Ma-IoN (Formulas Of Reptilian Unification)” si sono guadagnati un risalto sulla scena forse mai toccato con le precedenti opere (ora siamo a quota cinque full-length in otto anni di vita, non si parla di pischelli…) e vedono quindi davanti al palco un pubblico bramoso, voglioso anche di lasciarsi alle spalle l’unica (parziale) controprestazione dell’intero festival. A fungere da richiamo per lo spiritualismo di cui anche la musica degli Acherontas è intrisa, un piccolo altarino con ammennicoli vari a centro palco, mentre a livello di vestiario di scena i quattro sono disadorni; soltanto il secondo chitarrista e il bassista si coprono il viso con una bandana, con un effetto vagamente alla Brujeria che stona con il variopinto universo sensoriale promulgato. Capiamo in pochi istanti che sarà un tripudio, un’overture irrefrenabile: dopo aver subito tanta fragorosa macilenza da chi ha calcato precedentemente le scene in giornata, le melodie raffinate e un filo intellettuali dei quattro sono manna dal cielo e il guitarwork denota fin dal principio una ricchezza di contenuti portentosa. Qua siamo allo zenith della moderna, e insieme arcana, interpretazione del metal estremo da parte della cuspide del movimento: black metal elegante, progressivo in un’accezione che prescinde da barocchismi o stranezze, e prende il meglio da metal estremo e classico per ergersi come una creatura ferina e camaleontica, transitante con passo agile e fiero nel dedalo di suggestioni cosmogoniche rabbiosamente evocate dal leader. Nikolaos Panagopoulos è un anfitrione perfetto per questa musica e detta legge con il supporto di una vocalità enfatica, ammaliante per come unisce livore e lirismo, poesia e perfidia. Un originale screaming e vocalizzi semi-puliti di cangiante interpretazione sono la ciliegina sulla torta di canzoni trascinanti, pervase da un’aura di pericolosa arte demoniaca, in bilico tra spargimenti di sangue e innalzamento dell’anima a vette di inenarrabili piaceri ultraterreni. Privando lo show degli interludi presenti nell’ultimo disco, gli Acherontas acquistano una sorprendente compattezza: molto limitate anche le pause, così che l’atmosfera creata con i primi pezzi non va mai a disperdersi. Non c’è un solo dettaglio fuori posto stasera, le rullate di Gionata Potenti sorreggono con impalcature di acciaio ogni ricamo delle sei corde e anche le parti di basso sono tutto fuorché un mero elemento di contorno; al Glazart i blackster ellenici hanno illuminato come mille soli neri il firmamento dell’estremismo intelligente e proteso nell’oscurità più sfuggente…

NECROS CHRISTOS
I Necros Christos non sono l’ensemble più talentuoso previsto per la giornata odierna. In termini di creatività, li scavalcano tutti gli altri gruppi visti all’opera ad eccezione degli Skelethal. Hanno un grande pregio però: quello di convogliare in un suono non ricercatissimo né esotico tutti i tipici umori associati normalmente al death metal. C’è la violenza, la spiritualità, un’epica ferocia, sentori di putredine e melodie ghermenti come un falco predatore. Forza e impeto, vigoria ed esaltazione. Un processo di sintesi che viene esplicato e reso manifesto da canzoni che non si distinguono per tecnica sublime o sviluppi bizzarri, non mirano alla complessità o allo stupefacente. E’ solo, si fa per dire, ottimo death metal, con rispetto per i “santi protettori” e un’invidiabile convinzione nel modo di affrontarlo. Tutto questo viene riconosciuto a questi ragazzi tedeschi, che a vedere la folla accorsa al proprio stand del merchandise – ricchissimo e pieno di leccornie – durante l’intera giornata, sono attesi in maniera spasmodica da una bella fetta dei presenti. Difatti, le prime note in arrivo dalle casse pigiano un interruttore nascosto nella testa di chi staziona dinanzi al palco e in un attimo è tutto un giramento di teste avanti, indietro, di lato, coi capelli, per chi li ha lunghi, a schiaffeggiare chi è nelle immediate prossimità. Mid-tempo macinanti e quadrate aperture in doppia cassa si danno il cambio con una discreta regolarità, senza che per questo subentri il tedio o l’insipidezza. Tutt’altro, il carismatico frontman Mors Dalos Ra, impegnato a voce e chitarra, è un personaggio carismatico e un abile maestro di cerimonie, a metà strada fra l’arroganza del frontman death metal “all’americana” e l’entusiasmo di chi si presta a suonare questa musica con lo spirito del fan quindicenne. Via le ampollosità e le pieghe indecifrabili di alcuni act precedenti, dentro la furia cieca e una veste atmosferica “popolana”, per un lotto di pezzi facilmente tentatori. L’interazione con l’audience è tra le migliori in assoluto del Wolf Throne, i Necros Christos hanno sparso da tempo il loro verbo tra una vasta fetta di ascoltatori estremisti, e oggi passano a raccogliere l’abbondante semina di “Triune Impurity Rites”, “Doom Of The Occult” e del recente EP “Nine Graves”. Tre quarti d’ora a dir poco concreti concludono al meglio un festival riuscito e di cui speriamo ci sia un seguito all’altezza l’anno prossimo.

0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.