02/09/2006 - Wolfmother @ Rolling Stone - Milano

Pubblicato il 05/09/2006 da
A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi
 

Pian piano i Wolfmother sono cresciuti da sensation a realtà in tutto il mondo, dall’Australia in poco più di un anno hanno sbancato pressoché ovunque, riscuotendo un impensabile e spropositato successo di critica (Rolling Stone li vuole nelle “10 band da tener d’occhio”) e, progressivamente, di pubblico. Si sprecano i caratteri in favore dei tre ragazzi che con un debutto davvero intrigante sono capaci di guardare dall’alto la concorrenza dei vari Jet, Datsuns e di tutta l’odiosa marmaglia pettinata post-Strokes, con una carica genuina, un citazionismo esasperato ma riuscito, dei testi mistici e un’attitudine rock n’ roll che manda a letto la concorrenza. Tutto questo almeno su disco. Finalmente ora i fenomeni passano in Italia per l’ultima data del loro tour europeo, pronti a soddisfare il loro pubblico e a sollazzare i critici già propensi all’incensamento. Il Rolling Stone resta semivuoto fino alle 21:00, con le sue gradinate insolitamente coperte da un telone che impedisce ai rockettari di riposarsi sul loro fondoschiena. Una mezz’ora dedicata al duo blues/rock/lo-fi degli italianissimi Mojomatics intrattiene un’audience abbastanza disiteressata alla proposta di una band divertente ma non fondamentale, pretenziosa forse nella sua limitatezza, simpatica e abile sicuramente ma che non lascia il segno. In pochi infatti si convertiranno al loro suono, poiché troppo ansiosi di incontrare gli headliner.

 

WOLFMOTHER

E alle nove precise eccoli calcare il palco, energici come ci si poteva aspettare, in una scenografia inesistente e adornati solo dell’espressività delle loro composizioni. La sezione ritmica, Chris Ross al basso e Myles Hesket alla batteria, è paurosamente carica, e lo dimostra sin dalle prime note. Impressionante il suono di Ross, pienissimo e grasso si ritaglia uno spazio imponente avvicinando molti passaggi allo stoner rock, mentre Hesket, scatenato, picchia sul suo set che è un piacere e una gioia per gli occhi. Tutto il pubblico è catalizzato però su Andrew Stockdale, che sfoggia un paio di mustacchi inediti e antipatici, da vera star dei settanta. Le movenze (sembra quasi faccia apposta per aggiungere un nome alla lista di citazioni) sono da novello Hendrix, sia per come incita il pubblico con la mano per come si contorce sulla sua chitarra sotto il famoso casco di riccioli. “Dimension” dà inizio al concerto, nel quale il gruppo eseguirà una per una tutte le tracce del debutto, puntualmente dilatate da assoli, improvvisazioni, ripetizioni e scherzi col pubblico, oltre a sessioni di organo cortesia di un Chris mai stanco. Forse proprio in questo la band esagera, diluendo quella epicità e quell’urgenza rockettara che chi scrive ritiene la parte migliore del gruppo, e che in questi giochi “vecchia scuola” viene spezzettata fino quasi a perdere il filo della matassa. Da quarantacinque minuti di album infatti viene partorito un act da quasi novanta minuti, a pensarci davvero troppi. Ma forse questa è solo l’opinione di chi scrive, visto che il pubblico rimane gioioso ed incantato fino alla fine, dove il gruppo rientra dopo la falsa uscita di scena, come tutti si aspettavano facesse tra l’altro, poiché la hit “Woman” non era stata ancora suonata. Quasi impossibile rispettare le aspettative, ma i Wolfmother si avvicinano ad esse con una prova ispirata e onesta, anche se purtroppo macchiata da una innegabile prolissità. Si spera non vengano spappolati come molti dalla pressione dell’industria musicale.

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