Report di Sara Sostini e Giacomo Slongo
Quando un giovedì di maggio si presenta con un’inedita veste novembrina fatta di pioggia, nebbia, allerte meteo e terreno gonfio d’acqua, ci viene da pensare che forse è la natura stessa che sta preparando la scenografia per l’arrivo del tour con Wolves In The Throne Room, Gaerea e Mortiferum: un pacchetto a tinte scurissime (chi più, chi meno, come vedremo a breve), particolarmente ghiotto per chi ha il cuore e i padiglioni auricolari immersi in un certo tipo di metal estremo.
Se i primi infatti, veri e propri padrini del Cascadian black metal, portano con sè il recente EP “Crypt of Ancestral Knowledge” da promuovere, i secondi – nascosti dietro gli onnipresenti passamontagna bordati di glifi dorati – si preparano ad un prossimo nuovo album con il singolo “World Ablaze”, uscito in questi giorni, mentre gli autori di “Preserved In Torment” ne stanno ancora promulgando l’impatto distruttivo sui palchi di mezzo mondo.
Di qualche settimana fa è anche l’annuncio dello spostamento di location – da Parma a Milano – e quindi poco dopo l’apertura porte entriamo nel Legend Club del capoluogo lombardo, carico di pesantezza e oscurità come il cielo nuvoloso fuori dalla venue. A voi il resoconto della serata.
Vicini di casa degli headliner, risiedendo anch’essi nell’uggiosa Olympia, capitale dello Stato di Washington, i MORTIFERUM si rendono protagonisti di uno show semplicemente perfetto, che ne conferma lo status di pilastri del circuito underground death metal (e death/doom) mondiale. Dalla pubblicazione di “Preserved in Torment”, secondo full-length edito da Profound Lore nel 2021, il quartetto non si è praticamente più fermato, con tour in ogni dove sia nelle vesti di headliner che di supporter come questa sera, e i risultati di tanta abnegazione – come si suol dire – si vedono e si sentono tutti.
Dal momento in cui Max Bowman e compagni salgono sul palco e attaccano a suonare, dopo una breve intro pre-registrata, si ha subito l’impressione di avere di fronte una band meticolosa e compattissima, con suoni calibrati alla perfezione e – soprattutto – una resa strumentale impressionante, e non è un caso che bastino poche battute dell’opener “Funereal Hallucinations” (dall’esordio “Disgorged from Psychotic Depths”) per sentirsi afferrati quasi fisicamente dalla musica vomitata dall’impianto.
Una colata nera che, partendo dagli eroi contemporanei Spectral Voice arriva alla vecchia scuola di Disembowelment e Rippikoulu, e che nonostante la forte componente criptica riesce a non perdersi in elucubrazioni mentali o digressioni cavernose fini a sé stesse. Ci sono densità, senso di abbandono, ma anche tanti riff memorizzabili e ritmiche che invitano all’headbanging, nei trentacinque minuti di show offerti dagli americani, per una prova di forza che ha ribadito la superiorità del progetto e posto molto in alto l’asticella qualitativa della serata. (Giacomo Slongo)
L’espressione ‘dalle stelle alle stalle’ è sicuramente esagerata, ma serve a dare un’idea dello stacco avvertito in sala fra la concretezza dei Mortiferum e l’artificiosità dei GAEREA.
Chi scrive, segue il gruppo portoghese fin dai tempi dell’EP omonimo su Everlasting Spew, e ad oggi ne aveva apprezzato tanto gli sforzi in studio quanto quelli in sede live, ma stasera non occorre chissà quale disanima per capire che, almeno nel modo di porsi sul palco, il quintetto stia mirando ad un’audience ben diversa da quella di qualche anno fa, con tutto ciò che ne consegue da un punto di vista della sostanza e della credibilità.
Detto di suoni che non saranno mai perfetti e di scelte che alle nostre orecchie suonano come delle facili scorciatoie (perché utilizzare delle basi per gli arpeggi di “Laude”, ad esempio?), a penalizzare la performance dei Nostri e a far alzare il sopracciglio agli spettatori più navigati è sostanzialmente l’overacting del frontman, la cui presenza – fra dimenamenti eccessivi, pose teatrali e una gestualità costruitissima – finisce per rendersi ridicola e vanificare le atmosfere genuinamente catartiche (quelle sì) del repertorio, con brani come “Deluge”, “Null” e “Urge” quasi ammazzati dalle mosse à la Ricky Martin del cantante.
Un ingombro non da poco, specie se inserito in un contesto black metal (sulla carta) profondo e misantropico, e che se una fetta del pubblico – specie quello più giovane – ha sicuramente apprezzato, per quanto ci riguarda sa di contraddizione e superficialità, con la solida prova degli strumentisti a non salvare più di tanto la baracca. A fronte di gabbie dorate (sul nuovo singolo “World Ablaze”), la gigantesca lampada multicolore con il sigillo simbolo del gruppo e i succitati contorcimenti, anche il look total black d’ordinanza, dal vestiario al body painting, sembra perdere molto della propria carica evocativa. (Giacomo Slongo)
Quando rientriamo nel locale, dopo una pausa tra i due gruppi, veniamo istantaneamente avvolti da una densa coltre di fumo e odore d’incenso; il palco, illuminato da due torce (tenute sotto controllo da contenitori di vetro) e candele, è vestito di banner raffiguranti nodi celtici di aspetto ligneo e altri arredi di scena – piante secche, ammennicoli vari – volti a creare una certa atmosfera più paganeggiante che boschiva.
Questa è una novità rispetto all’ultima volta che chi scrive aveva avuto modo di vedere i WOLVES IN THE THRONE ROOM, ma non è la sola: quando la formazione di Olympia fa il proprio ingresso sul palco, notiamo un certo ‘immetallimento’ nel quartetto, che si presenta con facepaint vario, bandoliere di borchie, cappucci e mantelli vari. Anche l’atteggiamento di Nathan Weaver e soci sul palco e verso il pubblico – non foltissimo neanche per gli headliner, ma molto caloroso – sembrano più aperti rispetto al passato.
Non sappiamo se questo sia dovuto alla robusta attività live intrapresa in questi anni (Covid permettendo) o ad una leggera virata, in termini musicali, da panorami boschivi assorti e introspettivi verso scenari comunque composti da natura incontaminata, ma arricchiti da quell’aroma pagano di cui parlavamo poco più su. Un ‘nuovo’ corso – visuale, prima ancora che musicale – cominciato poco dopo l’uscita di “Thrice Woven”, abbastanza comprensibile; e pazienza se a gusto personale li preferivamo più ‘orsi’, vedendo l’entusiasmo generale e il seguito in crescita che hanno, crediamo che gli americani abbiano compiuto una scelta fruttuosa, in termini di appeal.
In ogni caso, bastano le note di “Beholden To Clan” (primo di tre estratti dall’ultimo EP) per dimostrare come, al di là di scenografia e costumi, i Lupi americani siano capaci di costruire un muro di suono eccellente, dosando abilmente voci (ciascuno dei tre a chitarre e basso si alterna al microfono sia nelle parti pulite che in quelle in screaming), riff micidiali, momenti in cui a parlare sono muschio e foglie morte con voce arcana e gelidi paesaggi d’oltreoceano; anche le parti più atmosferiche, composte da suoni naturali, strumenti vari e tastiere, in passato suonate live e qui in base, non perdono un grammo del proprio valore, grazie anche all’illuminazione di contorno.
Complici anche dei suoni ulteriormente migliorati, il concerto è sia un’ottima dimostrazione di come suonare black metal con una personalità capace di fare scuola, che una sorta di rituale per chi vuole correre nei boschi libero dalle pastoie dell’età moderna: il trittico “Vastness and Sorrow”/”Thuja Magus Imperium”/”Cleansing” (con la prima e l’ultima dal bellissimo “Two Hunters” e la seconda da “Celestial Lineage”), in particolare, irretisce e conquista cuori, anime e pure i muri del Legend, a testimoniare come possano passare le mode come acqua sui sassi, quanto possa cambiare una band a livello d’immagine, ma come a fronte di una base musicale davvero valida, come in questo caso, tutto il resto passi in secondo piano.
Precisi e al tempo stesso partecipi di uno scambio reciproco di energie col pubblico, i Wolves In The Throne Room confezionano un live sostanzioso, capace di soddisfare un po’ tutte le sensibilità: che ci si sia innamorati di loro con la lunga, toccante “I Will Lay Down My Bones Among the Rocks and Roots” (grande assente della serata, ma visto il minutaggio elevato capiamo bene come possa essere stata preferita da altri episodi in scaletta) o con i simbolismi selvatici e più snelli di “Primordial Arcana”, la band lascia un’impronta nitida nelle orecchie e nel cuore degli astanti.
E, alla fine di tutto, questo è quello che conta. (Sara Sostini)