Introduzione a cura di Giacomo Slongo
Report a cura di Giacomo Slongo e Maria Chiara Braida
Gli amanti delle sonorità black metal che non sono riusciti a presenziare al sempre più celebrato Roadburn Festival avranno avuto di che rifarsi (almeno in parte) all’anteprima del Solomacello Fest, spostatasi al Bloom di Mezzago dopo la fine delle attività del Lo-Fi e sfoggiante in questa edizione 2017 un bill di assoluto richiamo e spessore, con i redivivi Wolves In The Throne Room in veste di headliner e il trittico Oranssi Pazuzu/Wiegedood/Cobalt a fungere da antipasto di lusso della serata. Il classico evento in grado di attirare a sé – tra hype nei confronti del genere e collocazione in prossimità del weekend – una platea vasta e disparata, con hipster in camicia a quadri e barba curatissima al fianco di truci blackster con chiodo e maglia dei Marduk, per un ritratto a trecentosessanta gradi dell’odierno culto della Nera Fiamma…
COBALT
Senza nulla togliere ai Cobalt, autori quest’oggi di una performance solida e formalmente priva di sbavature, quanto è giustificato il fervore venutosi a creare intorno al loro nome? Ne sentiremmo parlare in simili termini se, anziché incidere per un’etichetta rispettatissima come la Profound Lore, la band di Erik Wunder non godesse di nessuna spinta mediatica e fosse obbligata a comunicare con il mondo esterno soltanto attraverso la propria musica? Domande che ci poniamo ormai da parecchi anni e che trovano una risposta esauriente sul palco del Bloom, dove il quartetto statunitense, spogliato di packaging vistosi e proclami da battage pubblicitario, si mostra ai nostri occhi per ciò che è realmente: una formazione come tante nell’affollato panorama black metal a stelle e strisce, figlia di quelle sonorità pungenti e sprezzanti codificate dai maestri Nachtmystium e riprese con sempre maggiore scalpore dai vari Castevet, Lord Mantis e Wolvhammer, senza dubbio competente e in grado di reggere un set da quaranta minuti ma, al tempo stesso, lungi dal potersi definire geniale. Detto della notevole presenza scenica del bassista Jerome Marshall, gigante di colore che da solo ruba la scena al frontman Charlie Fell e al suo screaming acidissimo, il set si snoda tra gli episodi serrati dei primi lavori e quelli più contaminati dell’ultimo “Slow Forever”, dove influssi doom e folk rurale fanno timidamente la loro comparsa da dietro le quinte, ma non incide laddove sarebbe lecito aspettarsi, sulle corde emotive che i gruppi sopracitati riescono puntualmente a scuotere, per un risultato finale al 100% ‘di seconda fascia’. Onesti e incazzatissimi, ma anche un po’ paraculati.
(Giacomo Slongo)
WIEGEDOOD
Per assistere allo show dei Wiegedood dobbiamo abbandonare la sala principale del Bloom e dirigerci in gruppo a passo sostenuto verso le scale che portano al primo piano, alla saletta normalmente utilizzata come cinema. Ecco che così, ancora più accaldati, troviamo il nostro angolino in sala, dove i primi arrivati si sono già seduti e gli ultimi non riusciranno nemmeno ad entrare. Il palco è spoglio, minimale. L’ambiente è scuro, le luci sono sanguigne e l’unico elemento scenografico è rappresentato da due banner raffiguranti lo scarno e spigoloso logo della band ai lati degli ampli. Il trio belga si compone di musicisti che provengono da Amenra (Levy Seynaeve), Oathbreaker (Gilles Demolder) e Rise And Fall (Wim Sreppoc), ed in questo tour presentano il loro secondo album, “De Doden Hebben Het Goed II”. Fin dalla prima “Ontzieling” il black metal esplode furente, ricordandoci atmosfere un po’ burzumiane, con chitarre affilate come rasoi e grida degne della misantropa disperazione dei classici degli anni ’90. La velocità è incalzante, i blast beat maniacali. Il set viene momentaneamente disturbato da un problema tecnico per Demolder ma, nei pochi secondi necessari a ripristinare l’ordine, Levy se la cava egregiamente da solo. Lo show scorre veloce e tirato per circa quaranta minuti: Sreppoc abusa della batteria, preciso e senza sosta; si avvolgono alla sua potenza i riff distruttivi di Demolder, mentre Levy canta a pieni polmoni trasudando emozioni che vanno dalla rabbia al dolore, dalla tristezza alla violenza. Il volume non aiuta a percepire le sfumature, ma questo non ci impedisce di cogliere la violenza esacerbata della musica e il lato viscerale dei Nostri, dal sapore ‘post’ metal e particolarmente onesto, condito da atmosfere maligne e al contempo melodiche. Lo spettacolo prosegue passando dalla titletrack al finale demoniaco di “Smeekbede”, durante le quali veniamo nuovamente inebriati dalle classiche atmosfere scandinave, mentre il calore e l’umidità in sala raggiungono picchi equatoriali. Nell’insieme lo spettacolo si svolge secondo una certa progressione nei volumi e nella violenza, nonostante l’assenza di basso ed il compito di esplorare il registro grave sia affidato completamente alle due chitarre. I Wiegedood non oltrepassano nessun nuovo confine musicale, non inventano nulla, ma il risultato finale si traduce in un’aggressività crescente che ci fa lasciare la sala con le orecchie sanguinanti per lo scontro con un muro di suoni incisivi, affilati, veloci, ripetitivi e ipnotici, ma mai noiosi.
(Maria Chiara Braida)
ORANSSI PAZUZU
Così come tre quarti d’ora prima siamo precipitosamente saliti, ora ci affrettiamo a scendere, più o meno ordinatamente, al piano terra, dove ci aspetta il tanto atteso show degli Oranssi Pazuzu. Come già detto, molti tra i presenti non si erano accaparrati un posto per lo show precedente, quindi sono rimasti al pianterreno per assicurarsi di godere al meglio e dalle prime file lo spettacolo dei finnici, adesso impegnati nel Mental Possession MMXVII tour per promuovere il loro quarto full-length “Värähtelijä”, uscito la scorsa estate. Di nuovo, le scenografie e l’ambientazione sono poco curate, il clima e l’afa si fanno sempre meno sopportabili, il pubblico si fa sempre più numeroso e il nostro viaggio ha inizio sulle note di “Kevät ” e “Saturaatio”, le cui chitarre dissonanti sono l’emblema della doppia personalità della band. E letteralmente l’emozione è quella di un viaggio, abbiamo la sensazione di essere calati in un trip psicotropo ma anche di essere trascinati nell’oblio. I suoni sono buoni ed è immediatamente facile assaporare la proposta del Demone Arancione: una fusione tutt’altro che consona di black metal estremo e sonorità space-rock-psichedeliche, contaminate da un doom tormentato e distorto e da un prog decisamente anni ’70. Dal punto di vista esecutivo ogni singolo strumento risulta chiaramente percettibile: le chitarre sono particolarmente aggressive, sebbene a volte si ammorbidiscano su arpeggi orientaleggianti; il basso di Ontto è pieno e si intreccia saldo ai cambi di tempo dettati dall’ipnotica batteria di Korjak e all’orchestra di synth diretta da Evil; ed infine il cantato di Jun-His, uno screaming graffiante, oscuro e furioso. Quello che maggiormente colpisce durante l’intero show è la risposta evidentemente emotiva di ciascuno dei partecipanti: ognuno sembra singola parte di un’allucinazione condivisa, quello che ascoltiamo sembra realmente tradursi per alcuni in un sogno lucido, per altri in una narcotizzata esperienza doom, per altri ancora in un malevolo e affilato scontro di sensazioni profonde tipiche del black metal. Se su disco i cinque richiedono particolari concentrazione e attenzione, dal vivo sembra molto più semplice seguirli e abbandonarsi all’estasi lisergica e all’etereo fluttuare tra registri ruvidi e neri verso celestiali atmosfere stupefacenti, tant’è che è possibile incontrare qualche spettatore che ad occhi chiusi ondeggia sui suggestivi riff proto metal, circostanza atipica per un evento targato black metal. I Nostri chiudono con “Vasemman Käden Hierarkia”, canzone di oltre diciassette minuti, forse quella a tutti gli effetti percepita come più lunga da sostenere della setlist per le continue variazioni di genere ed intensità. A scaletta ultimata, mentre i cinque se ne vanno, tutti applaudono con sincero entusiasmo, consapevoli di aver partecipato ad uno show unico nel suo genere e impossibile da dimenticare.
(Maria Chiara Braida)
WOLVES IN THE THRONE ROOM
Mettiamola così, in maniera molto semplice: “Celestite” è stato il classico passo più lungo della gamba. Un azzardo compiuto senza troppa lungimiranza da una band, quella dei fratelli Weaver, evidentemente convinta che qualsiasi sua mossa avrebbe riscosso il plauso incondizionato del pubblico e della critica. Le cose – come tutti noi sappiamo – non sono andate secondo i piani, con il suddetto full-length ignorato sia dallo zoccolo duro dei fan che dagli amanti delle sonorità sperimentali e ‘viaggianti’, costringendo i Nostri a fare dietrofront e a rivedere le loro posizioni sull’argomento, non prima di una lunga pausa dalle scene. Sono passati ormai tre anni da quel tonfo, e finalmente possiamo riabbracciare gli autori degli straordinari “Two Hunters” e “Celestial Lineage” nella dimensione che più gli si addice: elettrica, ferale e spaventosamente emotiva, in cui black metal, folk nordamericano e post rock trovano perfetta sintesi in composizioni-fiume da lacrime agli occhi e brividi sulla schiena. Fin dai primissimi istanti, appare chiaro come la formazione di Olympia non abbia assolutamente sottovalutato l’impegno, presentandosi sul palco con un’inedita formazione a tre chitarre – le quali hanno eretto il muro del suono più impressionante della serata – e con un’avvenente ragazza ai synth (che sia la fidanzata di uno dei musicisti?), per una resa assolutamente organica e priva di basi registrate, fedele alla ritualità sacrale che da sempre ne accompagna il monicker. L’impatto è insomma dei migliori, complici una scenografia sobria ma funzionale e dei suoni calibrati ad hoc, e basta chiudere gli occhi per ritrovarsi al cospetto di quella natura immensa e solitaria descritta dal quintetto, con le varie “Queen of the Borrowed Light”, “Prayer of Transformation” e soprattutto la monumentale “I Will Lay Down My Bones Among the Rocks and Roots” a riecheggiare sulle nostre teste in un’esplosione di melodie arcane e rabbia primordiale, distinguendosi oltretutto per una serie di ri-arrangiamenti e modifiche rispetto alle versioni su disco. Neanche a dirlo, i novanta minuti di setlist scorrono senza dare al pubblico la possibilità di rendersene conto, quasi risucchiandolo in una dimensione incontaminata e senza tempo, e la sensazione al riaccendersi delle luci non è poi così distante da quella di un abbraccio con un amico perso di vista per tanti, troppi anni. Bentornati, Wolves In The Throne Room.
(Giacomo Slongo)