Gli Yawning Man sono una band con una storia lunghissima e, in un certo senso, leggendaria: nati in California nel 1986, all’inizio della loro carriera sono stati tra gli organizzatori dei cosiddetti ‘generator party’, concerti che avevano luogo in mezzo al deserto e che sfruttavano dei generatori diesel per produrre l’energia elettrica necessaria a suonare.
Si narra che molti artisti della futura scena stoner rock, tra cui membri dei Kyuss, abbiano tratto ispirazione da queste suggestive jam session per modellare le proprie sonorità ed il proprio immaginario fatto di polvere e sole cocente, ma per anni gli Yawning Man rimarranno una specie di segreto ben nascosto, arrivando al debutto solo nel 2005.
La figura principale attorno alla quale ha avuto origine la band, Mario Lalli, ha purtroppo recentemente abbandonato, così come il figlio Dino, sembra per screzi con Gary Arce, che è rimasto così l’unico membro originale; ma i padrini del desert rock hanno deciso di non fermarsi e, dopo aver assoldato i cavalli di ritorno Billy Cordell e Greg Saenz, stanno affrontando un tour che li vede calcare i palchi di tutta Europa con la solita passione, per promuovere l’ultimo album “Long Walk Of The Navajo”, pubblicato solo qualche mese fa.
Abbiamo assistito alla data del Centrale Rock Pub di Erba (CO): vediamo come è andata.
Quando arriviamo al Centrale Rock Pub, in quella che da queste parti può essere considerata la prima serata con temperature autunnali, il locale è già abbastanza pieno, con molto anticipo rispetto all’orario programmato per l’inizio dello spettacolo; la prima considerazione è che appare curioso vedere così tanta gente di domenica sera, con lo spettro del lunedì lavorativo che incombe, in un posto non centralissimo, ma probabilmente gli Yawning Man chiamano a raccolta un numero di cultori più elevato di quanto ci saremmo aspettati .
I tre veterani del rock del deserto sono in sala da molto tempo, si muovono tra i tavoli e il banco del merchandising, mostrandosi aperti al dialogo con chiunque li blocchi per parlare e, puntualissimi, salgono sul palco alle 22. Come sempre qua ad Erba, la qualità sonora è buona, e lo si capisce fin da subito, mentre gli effetti delle luci sono basici ma funzionali alle evoluzioni sonore svogliate di brani rilassati se non indolenti. Il terzetto si dispone con il chitarrista ed il bassista ai lati, mentre il batterista, con look variopinto e bandana, si posiziona al centro, diventando il fulcro della scena.
Il suono degli americani mescola uno stoner strumentale e leggero con elementi psichedelici e derive post-rock; la loro musica è un flusso che ti trasporta in un’altra dimensione, in un assolato deserto della California, a dispetto del clima, gelido anche dentro la sala.
I primi tre pezzi proposti sono quelli dell’ultimo album “Long Walk Of The Navajo”, pubblicato la scorsa estate, e suonano eterei ma anche concreti grazie ad una sezione ritmica che si fa sentire; in particolare a colpire sono i quindici minuti di “Respiratory Pause”, con l’ariosa e reiterata melodia che sembra uscita da una colonna sonora. La sei corde di Gary Arce sciorina accordi ed arpeggi sommersi da echi e riverberi, e solo raramente qualche assolo, mentre gli spazi lasciati vuoti vengono riempiti dal basso di Billy Cordell, l’unico del terzetto ad interagire minimamente con il pubblico, e dal tarantolato Greg Saenz, che suona una batteria essenziale con una foga tale da risultare, anche a livello visivo, il motore pulsante della band. “It’s A Bad Time To Be Alive” sprigiona un forte effetto psichedelico in un andamento che assomiglia ad un’improvvisazione, come se i musicisti stessero jammando in studio, mentre “Manolete” rappresenta il momento più pesante, uno stoner torrido e rumoroso che scorre pigro su poche note di chitarra. Un viaggio ipnotico per una band di culto che è l’essenza stessa del genere che suona e che continua a girare i club di tutto il mondo, raccogliendo solamente ora i frutti di ciò che ha seminato molti anni fa.
Si chiude così e, quando i californiani lasciano il palco dopo appena un’ora e un quarto di concerto, il pubblico chiede a gran voce qualche altro pezzo, che non arriverà: la durata della performance, considerando che non ci sono gruppi di supporto, sarà l’unica nota stonata.