Introduzione e report di Roberto Guerra
Fotografie di Simona Luchini
Considerando la lunga assenza del mitico asso della sei corde Yngwie Johan Malmsteen in territorio italiano, era inevitabile che si creasse una attesa enorme nei confronti delle quattro date entro i nostri confini, a seguito dell’annuncio avvenuto in pompa magna alcuni mesi fa.
Il sold-out ottenuto in quel di Roma, nonché l’affluenza a dir poco notevole riscontrabile questa sera in zona Alcatraz di Milano, sono solo due delle conferme di quanto il celebre guitar hero svedese risulti essere ancora apprezzato e stimato, nonostante alcune uscite controverse che non hanno giovato particolarmente alla nomea di un illustre performer, nonché compositore (dettaglio da non trascurare).
La serata, come potrete leggere a breve, è stata davvero carica di chiaroscuri, il cui strascico ha accompagnato le nostre riflessioni per giorni.
LIMBERLOST
Spendiamo poche parole per gli statunitensi Limberlost, qui in veste di opener della serata, in quanto riteniamo si tratti di una band con del potenziale, ma anche relativamente anonima e poco provvista del piglio necessario per fare presa su un pubblico che è qui con in testa una volontà precisa. La proposta è un hard rock abbastanza basico e con qualche influenza sparsa tra il classico e il moderno, senza nessun guizzo musicale o compositivo a farci drizzare le orecchie, a parte la presenza di ben due cantanti on stage, ad indicare la possibilità di assistere a qualche duetto interessante; speranza vana, visto che le suddette fanciulle offrono due immagini curate invero piuttosto bene e in grado di bilanciarsi reciprocamente, ma lo stesso non si può dire per le loro timbriche vocali, a parer nostro troppo simili e non in grado di migliorarsi o supportarsi a vicenda all’interno della resa generale, che continua a sembrarci abbastanza evitabile anche durante la cover della ben nota “Kashmir” dei Led Zeppelin.
In buona sostanza, un opening act non fondamentale, che può congedarsi con qualche timido applauso, prima di permettere all’headliner del tour di calcare il palco in tutta la sua possanza.
YNGWIE MALMSTEEN
Come anticipato nell’introduzione, questo potrebbe essere uno dei report meno facili da impostare ed approcciare, perlomeno da parte di chi sta scrivendo queste righe.
Partiamo con gli elementi che abbiamo apprezzato maggiormente: il Maestro è un vero e proprio fenomeno e genio della chitarra! Solo una persona poco obiettiva potrebbe negarlo, e a sessant’anni suonati il suo tocco magico e dal retrogusto old-school non si è affievolito nemmeno un po’, e questo può trasparire dalla sua esecuzione pulitissima e nel contempo grezza al punto giusto, ma anche dal look e da determinate soluzioni tecniche e stilistiche, incluso il muro di Marshall autentici e un sound reso tale grazie a soluzioni ormai molto meno diffuse, rispetto ai bei tempi in cui amplificatore valvolare e pedali singoli la facevano da padrone.
Il susseguirsi di assoli, virtuosismi e fraseggi di derivazione neoclassica proposti stasera rendono l’intera esibizione una autentica e saporita celebrazione di un certo tipo di chitarrismo, creato da un mito come Ritchie Blackmore e poi estremizzato ed espanso proprio dallo stesso Yngwie Malmsteen, che suona evidentemente per se stesso e senza scendere ad alcun compromesso, il che merita grande rispetto, soprattutto da parte di chi si definisce chitarrista e non vede l’ora di applicare sullo strumento quanto appreso durante lo spettacolo.
Strutturalmente la performance si avvale inoltre di diversi medley, il che può aiutare ad aggiungere carne al fuoco al fianco di brani come “Black Star”, “Far Beyond The Sun”, “Evil Eye” e quant’altro, che sono oggettivamente dei gioielli nel loro settore, e ci fa piacere averli potuti sentire dal vivo, seppur con una forte aggiunta di improvvisazione ed espressione sul manico dell’iconica Fender Stratocaster color panna.
Ora però è il momento di passare alle note dolenti: partendo dal presupposto che adoriamo gli album classici di Yngwie non soltanto per il loro contributo chitarristico, ma anche per le bellissime canzoni in cui esso si esprime, inclusa quella “Rising Force” che stasera dovrebbe essere la traccia d’apertura. Usiamo il condizionale perché essa, come troppe altre stasera, verrà proposta in una versione tagliata e a suo modo affrettata, anche per permettere ai molti atti dell’opera di oggi (incluso un assolo di batteria abbastanza inutile, se non per spezzare la monotonia) di trovare spazio in appena novanta minuti di show. Una scelta per noi abbastanza scellerata, considerando i capolavori composti da Malmsteen, incluse quelle “Seventh Sign” e “You Don’t Remember, I’ll Never Forget” che verranno proposte dopo, anch’esse con delle lunghe parti mancanti.
Personalmente, avremmo davvero gradito assistere a qualche sviolinata in meno, ma con qualche canzone in più, possibilmente intera, magari col contributo di un cantante con tutti i crismi, pur senza nulla togliere al tastierista Nick Marino, che con la sua voce squillante fa quel che può, nelle poche fasi che lo vedono partecipe in quel dipartimento. Certo, qualcuno potrebbe farci notare che in alcune parentesi è lo stesso Yngwie a mettere in mostra l’ugola, ma ammettiamo di aver trovato quei momenti abbastanza evitabili e dalla resa non ottimale.
Anche tra strumentali, citazioni e cover, non tutto convince allo stesso modo: gli estratti più recenti, in particolare, non reggono neanche lontanamente il confronto con quanto venuto prima, neanche in sede live; e se questa può sembrare un’ovvietà, vogliamo garantirvi che in moltissimi casi è capitato che su un palco il dislivello si ribilanciasse. Purtroppo non in questo caso, e sebbene possiamo aver trovato accattivanti le reinterpretazioni di “Red House”, di Jimi Hendrix, e di “Badinerie”, originariamente composta da Johann Sebastian Bach, lo stesso non si può dire per la abusata “Smoke On The Water” dei Deep Purple.
Poco spazio anche per la chitarra acustica, che si palesa on stage solo verso la fine, mentre un utilizzo maggiore avrebbe senza dubbio aggiunto freschezza al pacchetto.
Per riassumere, ci sentiamo di etichettare lo show in questione come la proverbiale medaglia con due facce: da una parte una grandiosa celebrazione e conferma di grande capacità e classe, da parte di un artista che ha saputo far parlare di sé come pochi altri nel corso della sua carriera, diventando una vera fonte di ispirazione cui attingere ancora ora. Tuttavia, dall’altra parte abbiamo trovato uno spettacolo tanto fomentante quanto ridondante, incompleto e troppo pendente verso una sola delle due specialità del Maestro, che sembra quasi aver messo del tutto in secondo piano le sue canzoni più iconiche e l’elemento compositivo del suo bagaglio personale.
Non ci è dato sapere se il musicista svedese in futuro ci farà dono di qualche proposta diversa, magari in compagnia di qualcuno dei suoi talentuosi ex cantanti per uno o più eventi commemorativi, ma allo stato attuale ci sentiamo di promuovere il suo spettacolo con alcune riserve, fermo restando che certe icone rimarranno per sempre tali e che gli arpeggi infernali sarebbero da insegnare nelle scuole di musica.
Setlist:
Rising Force
Top Down, Foot Down/No Rest For The Wicked
Soldier
Into Valhalla/Baroque & Roll
Like An Angel (For April)
Relentless Fury
Now Your Ships Are Burned
Wolves At The Door
(Si Vis Pacem) Parabellum
Badinerie (Johann Sebastian Bach cover)
Paganini’s 4th/Adagio
Far Beyond The Sun/Bohemian Rhapsody
Seventh Sign
Overture/Arpeggios From Hell
Evil Eye
Smoke on The Water (Deep Purple cover)
Trilogy (Vengeance)
Guitar Solo
Red House (The Jimi Hendrix Experience cover)
Fugue
Drum Solo
You Don’t Remember, I’ll Never Forget
Black Star