Berkeley e il suo storico centro sociale 924 Gillman (cooperativa non-profit che ha lanciato praticamente tutte le band più in vista della Bay Area, dai Green Day ai Machine Head) hanno ospitato una serata (quasi) tutta all’insegna della poderosa Profound Lore Records di Chris Bruni. Sul palco più vecchio e famoso della Bay Area si sono avvicendate tre tra le realtà più interessanti del roster della Profound Lore, ovvero Yob, Dark Castle, Worm Ouroboros e gli “outsider” di lusso Dispirit. La serata è stata tutta all’insegna del doom metal, servito in varie salse più o meno conosciute, e in generale della venerazione del watt come amuleto musicale, e del feedback e del wall of sound come rituali imprescindibili per questa nuova deriva heavy americana.
WORM OUROBOROS
Band davvero niente male, questo trio di Oakland, che annovera tra le sue file membri passati e presenti di Amber Asylum, The Gault, Agalloch, Ludicra, Barren Harvest e World Eater. I Worm Ouroboros sono fautori di una sorta di “bucolic metal” che mischia in parti uguali folk e doom metal per creare qualcosa che non è la semplice somma della sue parti ma qualcos’altro ancora, ovvero, per dirla in maniera semplice, post-rock. Ampi interludi indie a folk scanditi solo da arpeggi di chitarra, piatti vibranti e le voci gotiche e “mitologiche” praticamente da soprano di Jessica Way e Lorraine Rath, che ricordano non poco certi canti folkloristici dell’Irlanda e delle zone celtiche in generale di secoli fa, sono la materia prediletta della band che la tesse come una tela ancestrale per poi squarciarla a cadenze regolari con possenti passaggi doom, distortissimi e soffocanti. Performance buona la loro, ma i lavori in studio della band, infarciti di violini e flauti, risultano molto più apprezzabili e strutturati della natura – obbligatoriamente – stripped down che il trio è costretto a proporre dal vivo per via della line up ristretta. Set armonioso e delicato, comunque, cosa che per una band doom metal alla fine lascia sempre un pochino a desiderare. Un po’ più di volume e rabbia forse avvrebbero fatto risaltare di più le (tante) qualità di questa band.
DISPIRIT
Bene, prima una breve introduzione assolutamente d’obbligo. I Dispirit sono – udite! udite! – la nuova band di John Gossard, leader di quella che forse è stata la più grande, misteriosa e leggendaria black metal band americana di sempre, ovvero i fenomenali Weakling, che tutti, obbligatoriamente, devono conoscere, senza scuse. Durati giusto un anno, finiti i Wekaling Gossard è poi divenuto il leader di un’altra mostruosità estrema della Bay Area, ovvero i catacombali Asunder. Dal black metal più deviato al funeral doom, insomma… no, Gossard non conosce il significato della parola “speranza” e la luce nel suo mondo non sembra essere ammessa per cui, anche nel caso dei suoi nuovi Dispirit, la disperazione e la violenza sonica senza confini hanno dominato in toto il loro set. Quella dei Dispirit è stata senz’altro la performance più intensa e interessante della serata, e anche quella più difficile da spiegare. La band ha prima riempito il Gillman di fumo, poi ha fatto spegnere ogni lampadina esistente nel locale e lasciato acceso solo un faretto rosso dietro la batteria. Nell’oscurità quasi totale, la band ha poi somministrato al pubblico una scarica di back-doom talmente deprimente, gelida e cacofonica da far mancare il respiro. Il set della band ha preso forma in due sole canzoni estenuanti e insopportabili, lente, sterminate, grottesche e del tutto disperate, che si sono lentamente amalgamate sul palco e poi sono strisciate giù in mezzo al pubblico, serpeggiando gelide fra la gente e inculcando un senso di terrore e negatività senza fine. Finito il set, i peli sul collo di chi scrive erano divenuti praticamente dei chiodi. Band incredibile e interessantissima da seguire assolutamente, ed ennesima prova di forza di un uomo ormai divenuto una piccola oscura leggenda nell’underground estremo made in USA. La serata è solo a metà, ma l’apice è stato raggiunto qui. Una curiosità che vale la pena sengalare è che (oltre alla scelta volontaria della band di non avere un’etichetta) l’unico merchandising disponibile dalla band erano delle audiocassette autoprodotte e nient’altro (!).
DARK CASTLE
Performance buona ma travagliata, quella del duo floridiano appena approdato alla corte di Chris Bruni. Intanto la band ha voluto suonare per lo più pezzi tratti dal secondo e ultimo lavoro “Surrender To All Life Beyond Form”, decisamente inferiore al primo, e in secondo luogo, se in studio la mancanza del basso si può bypassare con vari escamotage, dal vivo non si scappa, il suono ne esce compromesso. E così purtroppo è stato. Steve Floyd è una donna esile e dalla figura volatile ma ha una rabbia e una visione sonica da fare invidia, ha urlato come una leonessa inferocita (nonostante il mix vocale vergognoso che non ha permesso alle sue urla di risaltare a dovere), brandito la sua chitarra come un’ascia da guerra, e ha fatto quanto meglio poteva per riempire la sala con i suoi riffoni sludge-doom dissonanti e strazianti, che però senza la spinta del basso non hanno mai tagliato l’aria del locale a dovere. Il batterista Rob Shaffer è un vero animale, e in un set di appena quaranta minuti ha fatto fuori tre set di bacchette e alzato un polverone di segatura. Forse proprio questa foga continua dal vivo è stata una scelta consapevole della band per non allentare mai la presa e per cercare di riempire il vuoto causato dalla mancanza del basso nel modo più indolore possibile, ma l’approccio ha tolto molto del carico atmosferico che la canzoni dei Dark Castle hanno, e la formula molto più diretta e brutale messa in essere dal duo ha puntellato decentemente la performance ma il risultato finale sembra essere stato quello di un’occasione mancata da parte di una band comunque validissima che ci ha messo tonnellate di cuore e sudore, ma che forse soffre un pochino troppo sotto il punto di vista delle risorse “logistiche”.
YOB
Nulla da dire sulla performance della band di Mike Scheidt. Vent’anni da veterani del doom americano non sono noccioline, e gli headliiner della serata hanno chiuso in bellezza con un set roccioso, esaltatnte e fottutamente pesante. Per motivi misteriosi stavolta la band dell’Oregon era senza il batterista Travis Foster, che è stato sostutuito da un esausto (ma implacabile) Rob Shaffer dei Dark Castle. A parte questo appuntino tecnico, la performance dei doomster oregoniani è stata infallibile, ineccepibile e colossale. Per darvi un’idea della profondità e vastità della musica degli Yob vi diciamo che il set, che è durato un’ora e mezza, era composto da appena sei canzoni, tra le quali hanno fatto la loro porca figura soprattutto “Burning The Altar” (l’opener del mostruoso ritorno “The Great Cessation”) e quell’odissea heavy-psych insopportabile chiamata “Ball Of Molten Lead” (un titolo che lascia poco spazio ai dubbi). Altre due chicche sono state la mostruosa titletrack del nuovo album “Atma”, e l’opener dello stesso, “Prepare the Ground”, entrambe colossali e segni inequivocabili che Scheidt e company si stanno sempre più allontanando – almeno per quanto riguarda le strutture, sempre più oscure e contorte – dal classico stoner metal soporifero di scuola Sleep e inoltrandosi nei meandri del dark-doom e del post sludge-metal di Neurosis e affini, anche per via delle voci di Scheidt, ormai quasi completamente urlate e disperate. Immancabili comunque i tradizionalismi seventies e old school per la quale la band è famosa. Feedback incontrollato, sporcizia, melma e nubi sulfuree di vibrazioni hanno invaso la sala principale del Gillman in pieno trionfo psichedelico, proprio come dovrebbe essere per dei veri veneratori dei Sabbath e dei Blue Cheer quali questi tre bucanieri del watt ovviamente sono. Performance veramente solida ed esaltante insomma, per una band ormai infallibile che sta bilanciando benissimo il proprio repertorio stilistico che guarda intelligentemente sia al passato che al futuro.
SETLIST:
Quantum Mystic
Prepare The Ground
Burning The Altar
Atma
Ball Of Molten Lead
Grasping Air