Report a cura di Giovanni Mascherpa
Finita la stagione dei concerti all’aperto – sebbene Metalitalia.com abbia ancora un paio di ‘cartucce’ da pubblicare – è ora di rientrare nei club per godersi l’affollato calendario di eventi che ci terrà compagnia fin sotto Natale. A fare da spartiacque tra l’estate agli sgoccioli e l’autunno alle porte, ecco l’appuntamento griffato Hard Staff e Solomacello con Yob, Pallbearer, Zodiac e Kröwnn. Un lotto di nomi importante, che vede ai nastri di partenza due delle doom metal band americane più acclamate, uno degli alfieri europei della nouvelle vague classic rock e una compagine italiana che, quatta quatta, sta guadagnando consensi da più parti con uno stoner/doom filologico, ma non privo di un proditorio fascino arcano. L’occasione viene buona anche per apprezzare la nuova veste del Lo-Fi, il quale ha goduto di discreto restyling nel periodo estivo; il locale ora è più spazioso, grazie allo spostamento del mixer nella zona retrostante il palco e all’apertura della parte più arretrata, prima utilizzata come magazzino. Anche lo stage è stato ampliato, sia sul davanti che ai lati, mentre l’impianto audio è stato potenziato in misura considerevole, garantendo un suono talmente grosso e pieno che il sottoscritto si azzarderebbe a paragonarlo a quello del celeberrimo Valley dell’Hellfest, ovvero il tendone più piccolo del festival francese e quello con i suoni mediamente migliori. Chi è stato a Clisson e vi si è trovato a goderne l’eccezionale sonoro saprà che è un complimento non da poco! Puntualissimi sull’orario divulgato, attorno alle nove e mezza, i veneziani Kröwnn fanno la loro apparizione, davanti a un pubblico già ben nutrito e che andrà incessantemente ad aumentare durante la serata…
KRÖWNN
E’ bastato un demo, “Hyborian Age” del 2013, per porre i veneziani Kröwnn alle attenzioni dei doomster nazionali e non solo. Arrivati già quest’anno all’esordio, con l’uscita nel mese di giugno di “Magmafrost”, è tempo per il trio per due terzi al femminile di dare una bella scaldata ai palchi italiani. Una data milanese di supporto a pezzi da novanta internazionali è sempre un buon viatico per guadagnare nuovi consensi, e i Kröwnn sono bravi a sfruttare l’occasione e a non steccare di fronte a una platea adeguatamente folta e consapevole di cosa si stia trovando davanti. I vocalizzi beffardi di Michele Carnielli prendono per mano nella nebbia stonerofila, e devotamente sabbathiana, in cui la band ama crogiolarsi, irrobustendo di fuzz e pattern anni ’70 una musica molto ortodossa ma ben interpretata sui fondamentali. Il ciondolare rapito della bassista Silvia Selvaggia Rossato indica con molta semplicità lo stato d’animo che si vuole rappresentare: una cullante perdizione, un lasciarsi andare a volute di note arrotate e profonde, sospese in un altrove indefinito. Come i vecchi gruppi hard insegnano, ci si può anche staccare da un racconto lineare di se stessi e far sfogare gli strumenti senza un apparente nesso e una direzione ben chiara da seguire; nel mezzo il concerto diventa una jam session pura, gestita con equilibrio dal trio per non farla diventare qualcosa di troppo concettuale e soporifero. I passi futuri dovranno necessariamente portare a uno stile più personale, ma per il momento non possiamo proprio lamentarci.
ZODIAC
Il bill prosegue nel segno dell’eterogeneità e offre una nuova esplosiva miscela di hard, blues e southern rock nelle persone dei quattro Zodiac, ensemble tedesco che sta seguendo, con un certo successo, il cammino intrapreso negli ultimi anni da quasi coetanei del calibro di Graveyard, Rival Sons, Kadavar. Questo fiorire di innamorati persi del classic rock retrò, alla stregua di tutti i trend, si sta facendo un po’ fastidioso, ma, al cospetto di musicisti così preparati e appassionati come questi cittadini di Munster, manifestiamo anche noi completa condiscendenza alle calde e soffuse note degli Anni ’70. Gli Zodiac, il cui terzo disco “Sonic Child” è fuori da una settimana quando prendono posto sullo stage meneghino, hanno conquistato anche in Italia un piccolo zoccolo duro di appassionati, che popolano in buon numero le prime file e si fanno sentire per l’intera durata del concerto, alcuni come dei veri e propri ultrà, cantando senza incertezze e con trasporto i seduttivi e, a quanto pare, ormai ben noti cavalli di battaglia. L’organo in legno, deliziosamente vintage, così grazioso che pare uscito da un quadro, è adoperato con ineffabile gusto per ammantare le dolci impennate umorali di un’atmosfera onirica e fantastica, mentre Nick Van Delft va ad accattivare con la vocalità morbida e rassicurante di cui Madre Natura l’ha dotato. Le movenze feline e misurate dei chitarristi e del bassista dicono di un avanzato livello di agio nello stare sul palco, i piccoli filler contribuiscono a rendere imperdibile anche gli andamenti più semplici, mentre solo avvolgenti e narrativi mandano in visibilio chi si abbevera a taluni profluvi di note come a una fonte dell’eterna felicità. Gli Zodiac, al di là del saper suonare con considerevole competenza, hanno delle signore canzoni tra le mani e lo splendido impianto del Lo-fi dà una connotazione roboante a ogni sortita ritmica e scarica di adrenalina, investendo anche i meno rocker tra i presenti di un irresistibile impeto a muovere il piede a tempo e accennare, quasi senza accorgersene, uno scuotimento del cranio piuttosto energico. Prevediamo un’ulteriore crescita delle azioni “zodiacali” nei prossimi mesi. Garantito.
PALLBEARER
Nell’ultracompetitiva scena doom odierna, i Pallbearer stanno scalando posizioni con la disinvoltura di un grimpeur sulle grandi vette alpine. Sono bastati due dischi, “Sorrow And Extinctions” nel 2012 e l’appena sfornato “Foundations Of Burden”, per mettere i ragazzi dell’Arkansas – avete letto bene, uno degli stati meno metal degli States – nel gotha del settore. I meriti sono facili da rilevarsi, e trascendono se vogliamo le preferenze e la sensibilità del singolo rispetto alla loro musica. Quello che lascia di stucco dei Pallbearer è il tocco, l’impressione di trovarsi dinnanzi alla band di un’altra categoria, quella che rimane a dispetto di mode e tendenze passeggere, traccia una strada, si fa ricordare per gli anni a venire. Brett Campbell canta divinamente, in modo asciutto e sommessamente stentoreo, e insieme all’altro ottimo interprete della sei corde Devin Holt fa lievitare riff lunghi e pastosi, con addosso un notevole senso di leggerezza e melodiosità, nonostante si gonfino come onde nel mare in tempesta e abbiano lo spessore di un muro perimetrale. La qualità della scrittura è lì da sentire, l’epicità arriva senza nemmeno cercarla con insistenza, la fierezza dell’insieme e la ricercatezza di ogni singolo passaggio permettono di assaporare con immenso piacere ogni piccolo anfratto e suggestione evocata. E’ bello vedere che, un poco alla volta, certi suoni stanno sfondando anche tra un pubblico pigro alle novità come quello italiano: il Lo-fi così pieno e partecipe è probabile non lo abbiamo mai visto e le pieghe sonore degli americani, a quello che ci è dato di vedere, sono masticate già da una buona parte dei presenti, visto come nelle prime file si sta stretti e non ci si perde un secondo della sentita performance. Nei Pallbearer ritroviamo il pathos articolato e alto di gente come While Heaven Wept e Atlantean Kodex, abbinato ad una raffinatezza e compostezza che li avvicina al doom settantiano e all’hard rock più barocco. Una commistione di stile non di poco conto e che giustifica pienamente la serie di elogi ricevuta dalla band nella sua breve carriera. Solo un sordo stasera non si sarebbe inchinato alla loro statura artistica.
YOB
L’aggettivo “pesante” non basta più. E’ superato, urge innovare, portare nuova linfa nel linguaggio affinché si possa decretare in maniera finalmente chiara ed esaustiva cosa rappresenti una determinata esperienza uditiva. Quello che gli Yob ti infrangono addosso, che scagliano impunemente dall’alto della propria dimora fra le vette inespugnabili del doom, ha la forma di un meteorite dal peso specifico insostenibile, e se loro sono “soltanto” heavy, gli altri gruppi a cui affibbiamo la stessa nomea si possono considerare tali? Bel dilemma. Siamo giunti a questa conclusione confusa al termine di oltre un’ora e mezza – o un’ora e tre quarti, quasi due ore, chissà… – durante la quale il vasto patrimonio culturale del trio dell’Oregon è stato suffragato da un’interpretazione titanica, esprimibile solo dai leader incontrastati di un movimento. In questa sede l’inclinazione all’abnorme e alla vastità dimensionale ha assunto le sembianze di un’esperienza sensoriale in un mondo di giganti, dove ogni più piccolo fraseggio si gonfia e riverbera all’infinito, facendo tremare le membra. Premono talmente sul volume e il voltaggio esagerato, questi manipolatori del rumore, che di primo acchito rischiamo di valutarli solo per il lavorio sul suono, e non sui pezzi. E qui si passa a un altro piano, più subdolo, sul quale gli Yob sconcertano per il dosaggio fantasioso delle sospensioni ritmiche, calibrate in maniera sempre diversa, grazie a un drummer sopra la media per l’ambito dei gruppi ultra-slow. I cambi di passo sono tumultuosi come una mandria di bufali, quando ancora gli era permesso di scorrazzare liberi e senza impedimenti nelle pianure americane, e i vocalizzi acidi, spaziali, robotizzati ed espropriati di calore umano si distinguono fieramente dalle decine di urlatori in circolazione, costituendo un unicum ad oggi inimitato, e chissà quando mai lo potrà essere. Mike Scheidt è sciamanico, nelle pause rimane con le mani giunte per aria, gli occhi chiusi, in breve trance, prima di urlare alzando il braccio destro a pugno serrato, riappropriarsi della fisicità sovrastante del concerto e ridare slancio ai suoi corpulenti elefanti alienati, ossia le corpose canzoni in repertorio, facendogli cambiare forma e significato tramite plettrate rombanti come mille tuoni scaricati in contemporanea. Ci si sofferma in particolare sull’ultima fatica, il freschissimo “Clearing The Path To Ascend”, per la gioia di astanti fitti fitti, parecchio eruditi in materia a sentire i boati che accolgono le aperture dei singoli pezzi. Gli Yob ci stanno benone sullo stage del Lo-Fi e provano in tutti i modi a non scendervi: chiedono quanto manca, provano ad allungare il minutaggio, un po’ ci riescono, concludono con una liquefazione del timpano a cui probabilmente non riusciremo più a porre rimedio. Troppo grossi per essere pensati e definiti compiutamente. Nella loro nicchia, i numeri uno.