Report di Luca Pessina
Foto a cura di Em Coulter Photography (https://emcoulterphotography.com/ | https://www.facebook.com/emcoulterphotography)
Una manifestazione come il Damnation Festival sembra non conoscere crisi, nonostante quasi tutto ciò che ruota attorno ad esso stia prendendo da tempo una piega preoccupante. In un’Inghilterra messa in ginocchio dall’aumento dell’inflazione e dalla conseguente impennata dei prezzi, il festival riesce a conservare il suo status di punto di riferimento per tutti gli appassionati locali, arrivando a far registrare l’ennesimo sold out consecutivo a dispetto di un importante cambio di location – dall’università di Leeds alla più vasta BEC Arena di Manchester. Con una capienza di circa seimila persone, il Damnation è al momento il più grande metal festival indoor in Europa: un traguardo che, per ammissione degli stessi organizzatori, appare quasi incredibile, considerando le umili origini dell’evento e il particolare periodo dell’anno in cui l’happening ha luogo. D’altra parte, l’estrema professionalità e la cura nell’allestimento del cartellone sono ormai argomenti consolidati nel passaparola tra i metallari d’Albione e non, così come non va sottovalutato il fatto che, avendo storicamente luogo il primo sabato di Novembre, il Damnation non ha chissà quale concorrenza con cui fare i conti, tanto da rappresentare un appuntamento fisso per moltissimi fan in cerca di un evento festivaliero nei mesi autunnali. Senza dubbio, il cambio di città non è stato semplice da attuare: Leeds e la sua università garantivano prezzi un po’ più contenuti e una location più centrale, oltre a un’atmosfera particolare consolidata negli anni; la BEC Arena, invece, è sostanzialmente un complesso di ex magazzini nei sobborghi di Manchester riadattato a centro fiere. Se da un lato il nuovo assetto permette tre palchi di notevoli dimensioni, una maggiore capienza e più possibilità di movimento, dall’altro viene a mancare quel calore un tempo associabile al Damnation, così come, banalmente, la possibilità di uscire dai cancelli e di raggiungere con facilità bar e ristoranti, nel caso non si sia soddisfatti di quanto offerto dal festival. Proprio sul fronte dei servizi di ristorazione, l’organizzazione ha già promesso miglioramenti per il prossimo anno, dato che gli stand culinari presenti in sede si sono rivelati poco efficienti o comunque non abbastanza numerosi per sostenere la richiesta di migliaia di persone. Soprattutto in serata, le code davanti a ogni punto di ristoro si sono fatte lunghissime, creando non poco disagio tra coloro che desideravano rifocillarsi senza perdere uno degli show in programma. Per il resto, comunque, si può parlare dell’ennesima edizione riuscita per il Damnation, un festival che, visto il successo del 2022, probabilmente d’ora in poi punterà a ingrandirsi ulteriormente, sfruttando magari anche il particolare assetto adottato quest’anno, con un cartellone dinamico, privo di veri e propri headliner (o comunque di nomi enormi e costosissimi), e un numero di concerti speciali commissionati per l’occasione, sulla scia di quanto avviene regolarmente a un evento come il Roadburn. Appuntamento dunque al 2023, sperando che nel frattempo la situazione nel Regno Unito, fra Brexit e caro vita, non comprometta troppo le basi della manifestazione.
Il primo set che riusciamo a vedere con la giusta attenzione è quello di STYGIAN BOUGH, il progetto che vede protagonisti Bell Witch e Aerial Ruin. Il primo capitolo di questa collaborazione all’insegna del funeral doom più atmosferico, “Stygian Bough: Volume I”, ha visto la luce ormai due anni e mezzo fa, ma, con la pandemia di mezzo, non c’è stato modo di promuoverlo prima. Siamo contenti di potere assistere al concerto del trio ora che sono passate alcune settimane dall’inizio del loro tour europeo: gli statunitensi appaiono infatti ben affiatati e molto ‘carichi’, facendo trapelare un po’ di sano entusiasmo nel trovarsi davanti a una platea tanto vasta, nonostante la musica chiami sentimenti tutt’altro che positivi. Ovviamente il gruppo può permettersi di suonare soltanto due (lunghe) tracce dalla propria mastodontica prima opera, ma sia “The Bastard Wind” che “The Unbodied Air” bastano per mettere in mostra l’alchimia e il particolare sound coniato dal trio. L’enfasi è sulla limpida voce del cantante/chitarrista Erik Moggridge, inizialmente un po’ distaccato, ma poi sempre più calato nella performance, colui che in questa nuova avventura sta colorando di nuove sfumature il tipico suono dei Bell Witch. Bisogna dire che l’assetto con questa chitarra e voce aggiuntiva rende la proposta della band più variegata e dinamica, senza però compromettere quel mood affranto normalmente associabile alla formazione. In un ambiente tanto grande e frequentato, il chiacchiericcio tra i presenti può rovinare i momenti maggiormente soffusi, ma tutto sommato il concerto riesce a mantenere la presa sugli ascoltatori più appassionati, lasciando certamente una bella impressione tra le prime file.
Sul palco principale, i FULL OF HELL stanno invece prendendo a frustate la folla con la loro frenetica proposta a cavallo tra hardcore, noise ed estremismo di varia natura. La band americana forse rende al meglio su palchi e in contesti più contenuti, ma chiaramente non si può dire che manchi loro impatto. La nutrita discografia del quartetto viene ben setacciata in una scaletta che a conti fatti va a coprire quasi una ventina di episodi, tutti suonati con estrema foga e convinzione da Dylan Walker e soci, i quali non amano parlare troppo, preferendo concatenare quanti più pezzi possibile in modo da dare allo show un taglio ancora più denso e asfissiante. Nel set, comunque, emergono tracce come “Bound Sphinx”, “Crawling Back to God” o “Burning Apparition”, vere e proprie pugnalate in cui il gruppo riesce a mettere in mostra anche una preparazione tecnica e una precisione di tutto rispetto.
Sul secondo palco, è quindi il momento degli INCANTATION, fra i maestri assoluti del panorama death metal a stelle e strisce. Da tempo il gruppo è una garanzia sul fronte live, ma da qualche anno le cose sono ulteriormente migliorate: il leader John McEntee ha infatti assemblato una formazione per i tour giovane e affiatata, circondandosi di ragazzi talentuosi e motivati che sanno come tenere il palco e interpretare al meglio il repertorio. Il quartetto si esibisce a metà pomeriggio e la differenza con buona parte delle band che lo hanno preceduto inizia a farsi netta: gli Incantation suonano e si presentano come se fossero headliner, lanciandosi in una performance tanto orgogliosa quanto impeccabile dal punto di vista tecnico ed esecutivo. Al basso troviamo Dan Vadim Von, ultimamente chitarrista per i Morbid Angel, ma, come ovvio, tutte le attenzioni sono per McEntee, il quale dà proprio l’idea di essere gasato e ringiovanito, a dispetto dei lunghi capelli bianchi. Il tempo a disposizione non è molto, così la band opta per un mini ‘best of’ che ha in perle come “Ascend Into the Eternal”, “Christening the Afterbirth” e “The Ibex Moon” i suoi picchi di intensità. Guardando la sala, si ha l’impressione che il pubblico venga conquistato minuto dopo minuto, tanto che alla fine partono anche cori inneggianti alla band. Se il tour di spalla ai Wolves In The Throne Room era stato pensato per suonare davanti a una platea diversa dal solito e per guadagnare nuovi fan, si può affermare che McEntee ci abbia visto giusto.
Sul palco principale tocca poi ai PIG DESTROYER, protagonisti di una delle ‘chicche’ di questa edizione del festival. Gli americani hanno infatti acconsentito a proporre per intero “Prowler In The Yard”, il loro album più acclamato, nonchè uno dei dischi grind più celebri degli anni Duemila. Sorvolando sull’ovvia presenza del leader Scott Hull alla chitarra, da qualche anno la line-up dei Pig Destroyer è stata allargata diventando un quintetto che ha nel micidiale batterista Adam Jarvis (Misery Index) il proprio principale punto di forza. La presenza di un drummer di tale portata eleva l’impatto di tutta la band e la scelta di affidarsi a una scaletta incentrata su un disco così valido e fomentante non può che rendere la prova complessiva dei Pig Destroyer più che soddisfacente già in partenza. Certo, qualche sbavatura qua e là si sente – vuoi perchè il frontman J.R. Hayes va ormai per la cinquantina, vuoi perchè il gruppo di certo non suona live tutte le sere – ma brani come “Cheerleader Corpses”, “Trojan Whore” o “Pornographic Memory”, supportati da una resa sonora complessiva sì ruvida ma sufficientemente definita, risultano comunque inattaccabili nella loro ormai classica miscela di grindcore e spunti thrash metal.
Come accennato in sede di introduzione, l’atmosfera all’interno della BEC Arena è un filo asettica, tuttavia con gruppi come i WOLVES IN THE THRONE ROOM è difficile non emozionarsi, anche quando si è circondati da un ambiente industriale. Come i loro compagni di tour Stygian Bough e Incantation, i black metaller statunitensi sono ormai ben rodati dopo settimane on the road e infatti la loro resa è quella che ci si aspetterebbe da un gruppo di veterani in questa situazione. Purtroppo oggi non c’è tempo per proporre la scaletta del tour, quindi il quartetto – che ultimamente ha un look decisamente metal, mentre agli esordi l’impressione era spesso quella di essere al cospetto di un manipolo di hippie – sceglie di promuovere il nuovo “Primordial Arcana” con due tracce – “Mountain Magick” e “Spirit of Lightning” – per poi guardare al passato con “Prayer of Transformation” e “I Will Lay Down My Bones Among the Rocks and Roots”. Soprattutto quest’ultima fa letteralmente venire i brividi: a distanza di quindici anni dalla sua pubblicazione, “Two Hunters” è ancora il lavoro migliore dei WITTR e “I Will Lay…” è forse la sua composizione più celebre. Il manifesto del suono della band viene interpretato con estremo trasporto da quattro musicisti che ormai sembrano conoscersi alla perfezione, portando fan e ascoltatori occasionali ad avvicinarsi sempre più al palco per vivere il ‘momento’ il più possibile.
Una simile tensione, assieme a quel feeling di puro raccoglimento che solo una realtà come questa sa evocare, lo si prova poi con i MY DYING BRIDE, finalmente tornati a esibirsi dal vivo dopo anni di varie sfortune. Purtroppo ci tocca sottolineare come l’acustica della sala principale non sia particolarmente ottimale, a maggior ragione per una band come quella gothic-doom britannica, ma ad Aaron Stainthorpe e compagni di sicuro non mancano il carisma e l’esperienza necessaria per ben figurare comunque. Così, anche se i suoni risultano un po’ confusi, ci si lascia rapire dalla solita sentita performance del gruppo originario di Halifax, il quale per l’occasione tira fuori la cosiddetta artiglieria pesante, andando dritto su perle e classici conclamati senza nemmeno preoccuparsi di promuovere l’ultima fatica in studio. Con “Like Gods of the Sun”, “The Cry of Mankind”, “Your River”, “She Is the Dark” e “Turn Loose the Swans” si vince facile e gli applausi si fanno sempre più fragorosi, anche grazie agli incintamenti di un Jeff Singer che, dalla sua batteria, incita continuamente gli astanti ad alzare le mani. La nota maggiormente positiva è comunque il suddetto Stainthorpe, cantante che, a dispetto dell’età che avanza, continua ad avere un’estensione e una potenza ragguardevoli: se il pubblico non bada troppo allo scarso vigore dei suoni questa sera, è anche grazie alla prova del carismatico frontman.
Il set dei MISERY INDEX, impegnati sul secondo palco, invece non manca certo di verve. Per anni gli statunitensi sono stati tra le death-grind band più attive sul fronte live e, anche se negli ultimi tempi hanno leggermente limitato le uscite, sulle assi di un palco restano una vera macchina da guerra. Questa sera il quartetto conferma tutte le proprie qualità mettendo insieme una performance serrata e violenta come da tradizione. Gli scambi vocali tra Jason Netherton e Mark Kloeppel sono ormai un marchio di fabbrica consolidato, così come il vorticoso drumming di Adam Jarvis, al secondo concerto della giornata dopo quello con i Pig Destroyer. In una scaletta piena di classici vecchi e recenti, spunta poi, a sorpresa, la cruda “Manufacturing Greed”, ripescata dal semi-leggendario mini d’esordio “Overthrow”. Da ascoltatori della prima ora, fa sempre piacere ritrovare queste perle del passato, le quali dimostrano, nel caso ce ne fosse il bisogno, come già vent’anni fa la formazione stesse facendo qualcosa di decisamente rilevante. Nemmeno un accenno di rissa nel pit, prontamente segnalato e smorzato da Kloeppel, fa perdere trazione a uno degli show più intensi di questo Damnation.
Nella sala principale, si torna quindi a celebrare la storia del metal con un altro concerto speciale: i GODFLESH, infatti, propongono nientemeno che il loro debut album “Streetcleaner”, opera fondamentale per la commistione di metal e musica industrial. Justin Broadrick e G.C. Green hanno di recente annullato un concerto a Londra per malattia, ma questa sera il duo appare in forma e concentrato per offrire una prova degna della loro storia. Dovendo suonare un caposaldo della loro discografia per intero, i Godflesh dove pescano, pescano bene, quindi da “Like Rats” a “Locust Furnace” è tutto un tripudio di allucinazioni e mazzate, con le atmosfere caustiche dei brani puntualmente sottolineate da un suggestivo gioco di proiezioni alle spalle e ai lati dei musicisti. Chiaramente non si può pretendere chissà quale presenza scenica da una band come i Godflesh, ma bisogna ammettere che il duo sembra crederci parecchio questa sera: un Broadrick con tanto di capelli lunghi ci dà particolarmente dentro, facendo emergere un lato umano/emotivo che non andrebbe dato per scontato quando alle prese con sonorità tanto spigolose e meccaniche. In generale, la prova del gruppo è assolutamente efficace e assai ben recepita da una platea che vanta molti astanti accorsi appositamente per questo specifico set.
Sul palco numero due, è invece tempo di schiaffoni e calci volanti con i DESPISED ICON, tra i padri del moderno filone deathcore, per fortuna negli anni tenutisi a debita distanza da certe goffe derive djent o pseudo-sinfoniche che hanno fortemente intaccato il genere. Da sempre i canadesi hanno dalla loro riff e dinamiche degne di questo nome, e questa sera si gode nel riascoltare alcuni degli episodi più incisivi e tamarri del loro repertorio. Quando arrivano i breakdown, questi hanno sempre un senso, rendendo quindi il doppio, mentre nelle ripartenze e nei momenti più serrati emerge la vera anima death-grind di una formazione dal background tutt’altro che improvvisato. I Despised Icon, come gli amici Misery Index, non sono più una band che va in tour a tempo pieno, quindi si apprezza la scelta di optare per una scaletta piuttosto variegata, con brani recenti ma anche tanti classici dei primi anni Duemila, come “A Fractured Hand”, “The Sunset Will Never Charm Us” e “In The Arms of Perdition”. Chi era fan già ai tempi, gode doppiamente e il sestetto si congeda tra gli applausi.
Sul main stage è quindi di nuovo tempo di amarcord, questa volta made in Sweden. Gli AT THE GATES arrivano al Damnation per suonare integralmente “Slaughter of the Soul”. Se Pig Destroyer e Godflesh, entrambi alle prese con dei loro grandi classici nel corso della giornata, hanno vinto facile, per gli svedesi lo show è a tutti gli effetti un successo annunciato. La band di Gothenburg ha tutt’ora tra il proprio seguito una schiera di fan che non calcolano minimamente gli altri capitoli della discografia, quindi un concerto come questo non può che rappresentare un colpo di coda importante in un carriera che ultimamente non ha fatto registrare picchi di popolarità particolarmente esaltanti, nonostante l’ultimo “The Nightmare of Being” sia un signor disco. Con “Blinded By Fear” si parte a mille come previsto e, anche se la voce di Tompa è sempre più bassa e – a tratti – svigorita, la resa complessiva è comunque più che dignitosa. D’altra parte parliamo di uno dei maggiori classici death-thrash degli anni Novanta! A rendere il tutto più autentico ci pensa poi la sola presenza del redivivo Anders Björler alla chitarra solista, qui al primo concerto con il gruppo dal 2016. Lo scandalo che ha visto protagonista l’ex chitarrista Jonas Stålhammar, coinvolto in una serie di molestie sessuali ai danni di alcune fan conosciute in rete, pare essere già stato archiviato: l’atmosfera è positiva e la band procede con il pilota automatico, inanellando hit come la title-track, “Suicide Nation” e “World Of Lies”. Suggestiva anche la conclusiva “The Flames Of The End”, le cui trame strumentali precedono la conclusione di “The Night Eternal”, traccia slegata dal tema della serata, ma ugualmente convincente. Certo, a qualche fan di vecchia data, noi compresi, avrebbe fatto più piacere sentire una “The Burning Darkness”, ma va bene anche così.
Senza sforzarsi troppo, gli At The Gates portano a casa il risultato e preparano al meglio il terreno per gli amici CONVERGE, protagonisti dell’ultimo evento della giornata. Il quartetto di Salem è chiamato a presentare il classico “Jane Doe”, opera seminale per tutto l’hardcore – e per certo metal – anni Duemila, tutt’ora regolarmente saccheggiato da quelle nuove leve desiderose di cimentarsi in una proposta che unisca suoni discordanti e una forte carica emotiva. Abbiamo avuto modo di assistere a moltissimi concerti del gruppo americano negli ultimi vent’anni, ma Jacob Bannon e soci sanno ancora come catturare la nostra attenzione. Colpisce sempre la genuinità e l’istintività alla base delle loro performance, la capacità del frontman di mettersi a nudo, interpretando il materiale con innato trasporto, oltre al grande affiatamento della sezione ritmica, da sempre una delle migliori nel genere. Anche qui, c’è poco da dire sulla scelta o la qualità dei brani: da “Concubine” alla title-track è tutto un trionfo, con suoni finalmente centrati e una risposta del pubblico a dir poco calorosa. L’esecuzione di perle come “Heaven in Her Arms” e “Phoenix in Flight” appassiona chi conosce a menadito il disco, ma, nel cosiddetto bis, c’è spazio anche per una manciata di pezzi capaci di far presa anche sul pubblico meno esperto: si parte con “Wolverine Blues”, cover degli Entombed dedicata a LG Petrov, e si chiude con “I Can Tell You About Pain” e “Dark Horse”, classici recenti quasi sempre presenti nelle scalette dei normali tour. Insomma, i Converge fanno la loro figura e tutti vanno a casa contenti. In primis gli organizzatori, che con un cartellone come quello di oggi hanno probabilmente gettato le basi per un futuro ancora più roseo. Appuntamento all’anno prossimo.