Introduzione a cura di Carlo Paleari
Report di Alessandro Elli
Foto di Matteo Musazzi
Il tour da co-headliner di Katatonia e Sólstafir conferma ancora una volta la formula vincente che vede due formazioni di primo piano a dividersi set di pari lunghezza, capaci di coinvolgere i fan di entrambi e, al tempo stesso, contenere i costi ancora molto alti della musica dal vivo. Perchè la serata sia un successo, però, serve il giusto equilibrio e trovare accoppiate che possano funzionare assieme per sonorità ed atmosfere rappresenta una sfida oltre che un’opportunità: fortunatamente, un Live Club decisamente pieno conferma in pieno la scelta di unire queste due realtà. Il concerto in sé, come leggerete nelle prossime righe, non è stato esente da difetti, con gli islandesi a compensare alcune lacune (soprattutto vocali) con il magnetismo e il carisma della performance, e i Katatonia, inizialmente un po’ arrugginiti, a dover arrancare per almeno due-tre canzoni con dei suoni sbilanciati prima di riuscire veramente ad ingranare. Eppure una serata come questa non è fatta (solo) di musicisti ed esecutori, ma vive piuttosto di emozioni forti, inarrestibili ed anche imperfette, come è giusto che sia. E su questo, gli uni e gli altri hanno dato il meglio, riuscendo a farci dimenticare le incertezze, per lasciarci invece abbandonare a due proposte diversissime eppure così vicine.
L’onore di aprire la serata spetta agli statunitensi SOM: il quintetto è composto da membri passati ed attuali di band quali Junius, Constants e Caspian ed ha all’attivo due album, tra cui il nuovo “The Shape Of Everything” pubblicato da un’etichetta di un certo peso come la Pelagic Records. La loro proposta consiste in un incrocio tra post-metal e shoegaze piuttosto convincente, in virtù soprattutto dei buoni brani che sanno scrivere; per quanto riguarda la resa live, invece, si vede che il gruppo non è ancora entrato pienamente a regime, poiché a tratti suona disorganico e poco compatto, perdendo qualche punto non tanto in termini di atmosfera quanto in impatto. La voce, eterea e sognante come il genere richiede, regge la sfida del palco, donando alle composizioni uno spirito ‘pop’ in contrasto con il sottofondo musicale, ma la parte strumentale non sembra supportarla con convinzione, pur lasciando intravedere elevate potenzialità che fanno sperare, passata questa fase di rodaggio, in un deciso salto di qualità.
Non hanno bisogno di presentazioni, invece, i SÓLSTAFIR, che possono vantare un vasto seguito ed una carriera ormai lunghissima. Non è perciò un caso che quando i cowboy islandesi salgono su un palco, il cui unico ornamento è il logo della band, il Live Club sia praticamente gremito ed un boato li accolga: dopo una lunga intro, il compito di inaugurare le danze è affidato alle atmosfere dilatate di “Náttmál”, interpretata magistralmente sia dal punto di vista strumentale sia da quello della resa sonora. Un discorso a parte merita la voce: Aðalbjörn Tryggvason, si sa, non è e non è mai stato un cantante tecnicamente perfetto e anche stasera non è difficile notare più di una ‘stecca’, ma è anche difficile rimanere indifferenti ad una timbrica unica e riconoscibile, che dal vivo non perde nulla del suo fascino, accentuato probabilmente dai testi in lingua madre; negli anni, poi, ha anche acquisito una teatralità ed un carisma (particolarmente evidenti durante l’esecuzione di “Rökkur”) che gli permettono di tenere la scena da protagonista e che, sentendo i commenti, non tutti sembrano gradire. In ogni caso, i quattro sono in gran forma, e lo si nota in pezzi storici come “Bloodsoaked Velvet”, eseguita in una versione particolarmente possente, e “Köld”, evidentemente una delle canzoni più apprezzate dai fan di vecchia data. Suggestive le esecuzioni di “Fjara” e della più recente “Ótta”, brani che valorizzano il lato più emozionale dei nordici, ma è impossibile non citare la conclusiva “Goddes Of The Ages” – durante la quale vengono presentati i musicisti e viene professato l’amore per Ennio Morricone – con l’infinita coda strumentale, un vero e proprio viaggio a suon di riff lisergici e impetuosi al tempo stesso.
I KATATONIA non si presentavano in Italia dal tour di “The Fall Of Hearts” del 2016 ed era quindi molta l’attesa per un gruppo che dalle nostre parti conta da sempre numerosi estimatori, anche se a raffreddare gli animi ci ha pensato la scelta di Anders Nyström di non partire per questo tour a causa di motivi familiari. Il chitarrista e membro fondatore, in ogni caso, da tempo sembra un po’ ai margini della vita della band, tanto che potremmo affermare che in sede live gli svedesi, in questo momento, sono la fedele riproduzione di ciò che si sente su disco: una formazione fortemente incentrata sul proprio leader, Jonas Renske, che, pur non appariscente o istrionico su di un palco, sembra essere il motore del gruppo. Il posto del defezionario Nyström, per questa serie di concerti, è affidato a Nico Elgstrand (Entombed, Entombed A.D.), un musicista con un tocco decisamente più estremo che infatti si sentirà spesso durante l’esibizione. L’attacco con la nuova “Austerity”, in verità, non è dei migliori, soprattutto a causa della voce, spesso il punto debole degli scandinavi dal vivo, ma nel prosieguo del concerto Jonas sembra quasi riscaldarsi e prendere fiducia col passare dei minuti, con la situazione che migliorerà velocemente. Tra i pezzi del recente “Sky Void of Stars”, buona è la resa dell’orecchiabile “Opaline”, mentre “Atrium” non convince nemmeno in questa veste, eccessivamente semplice e lineare; in generale l’impressione è che su questi brani i cinque, ed in particolare il batterista Daniel Moilanen, non siano totalmente a proprio agio. Al contrario, considerando la decisione della band di non andare a pescare troppo in là nel passato (il brano più vecchio tra quelli in scaletta è del 2003), i momenti migliori coincidono con gli estratti da “The Great Cold Distance”, ossia “July”, “Deliberation” e, soprattutto, l’acclamata “My Twin”, sul cui ritornello si scateneranno i cori di tutti i presenti. “Forsaker”, con i suoi riff affilati in contrapposizione alla malinconica parte centrale, dal vivo guadagna in intensità e drammaticità, “Behind The Blood” piace per l’inaspettato approccio tra l’hard rock ed il metal classico ma, sicuramente, è il gran finale con “Evidence” a convincerci che ne è valsa la pena. Uno spettacolo con luci ed ombre, come è normale che sia per una formazione con una carriera trentennale e che ha sempre avuto il coraggio di cambiare nel corso degli anni; non avranno accontentato tutti, ma i Katatonia hanno fatto la storia del loro genere ed assistere ad un loro show è comunque un’esperienza da provare.
SOM
SOLSTAFIR
KATATONIA