8.0
- Band: OPETH
- Durata: 01:07:15
- Disponibile dal: //2001
- Etichetta:
- Music For Nations
- Distributore: Audioglobe
Il Parco dell’Acqua Nera. Blackwater Park. Luogo in cui soffrono e si disperano gli spiriti dei Morti. Sorta di decadente e putrido purgatorio, nascosto ad occhi viventi, pervaso da foschie e brume inquietanti, avvolto in un freddo grigiore marcio e rinsecchito. Travis Smith, l’artista autore del magnifico artwork del quinto disco marcato Opeth, è sempre più richiesto sulla scena metallica (Katatonia, Novembre e mille altri), ma in “Blackwater Park” si supera assai e, solo grazie al suo lavoro, contribuisce a donare all’album un alone misterioso ed intrigante, presto rintracciabile poi anche nelle singole composizioni. Il lavoro in questione è quello che fa fare agli Opeth il salto di qualità, il cosiddetto “botto commerciale”. E, sinceramente scrivendo, non ce ne sarebbero affatto le ragioni. D’accordo, la fruttuosa e cospicua collaborazione della band con Steven Wilson, leader e voce dei Porcupine Tree, il quale interviene sia in sede di produzione, sia contribuendo in parte al songwriting, sia partecipando lui stesso alla voce, alle chitarre e al pianoforte (nella conclusione di “The Leper Affinity” e nella breve strumentale “Patterns In The Ivy”), porta ad un’ulteriore stratificazione del sound e all’adozione di alcuni accorgimenti particolari che regalano aggiuntivo pathos e nuova originalità ad uno stile ormai consolidato e sicuro delle proprie possibilità. In qualche frangente, ad esempio nella ballata “Harvest” oppure all’inizio e alla fine di “Dirge For November”, si iniziano a notare accenni a certe sonorità d’elite che poi straborderanno nell’acustico “Damnation”. “Blackwater Park”, nel suo insieme, è certamente più ambizioso, complesso e difficile di quanto mai fatto finora dalla band…eppure ha un successo fenomenale! Quasi inspiegabile. Chiaro, il disco, dopo parecchi ascolti, esplode in tutta la sua pallida bellezza, ma addentrarsi fra le scarne betulle di questo parco defunto è impresa piuttosto ardua. L’approccio al riffing diventa più psichedelico, Åkerfeldt alterna cantati sempre più estremi, passando da un pulito limpido e dolce ad un growl spaventosamente grave, gli altri musicisti riescono a ritagliarsi spazi individuali con più facilità rispetto al recente passato. La bellezza di “Bleak” e “The Drapery Falls”, il dinamismo prepotente di “The Funeral Portrait” (gli Opeth non disdegnano il moderno, componendo riff anche stranamente groovy), la dilagante inquietudine della title-track…tracce così complesse, ben strutturate e straordinarie non possono essere certo criticate più di tanto, ma nell’insieme ci sembra giusto dire che “Blackwater Park” venga ancor oggi un attimo sopravvalutato: in realtà, è come se la band stesse pian piano adagiandosi sugli allori, oppure inizi a diventar prigioniera della propria musica… Ma di tempo per ragionare su questo ce n’è davvero poco, in quanto arrivano finalmente i grandi tour extra-europei e gli Opeth sono richiesti a destra e a manca. Buon per loro, dunque…i cancelli del Blackwater Park sono spalancati e orde di fan vi si riversano all’interno…